L’Ombra Silenziosa Dopo la Terapia Intensiva: Ansia e Depressione Aumentano Davvero il Rischio di Non Farcela?
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, sono sicuro, toccherà le corde di molti. Parliamo di cosa succede dopo la tempesta, dopo che si è lottato con le unghie e con i denti in un letto di terapia intensiva (TI) e si è finalmente tornati a casa. Sembrerebbe la fine di un incubo, no? Eppure, per molti, è l’inizio di un’altra battaglia, più subdola, silenziosa: quella contro i fantasmi della mente come ansia e depressione.
Mi sono imbattuto in uno studio scientifico recentissimo, pubblicato su Springer, che ha messo nero su bianco una realtà che forse sospettavamo, ma che ora ha contorni più definiti e, francamente, un po’ allarmanti. Lo studio si intitola “Depressione o ansia e mortalità a lungo termine tra i sopravvissuti adulti alla terapia intensiva: uno studio di coorte basato sulla popolazione”. Già dal titolo si capisce dove vuole andare a parare, vero?
Cosa dice questo studio che mi ha tanto colpito?
Beh, immaginatevi un’indagine mastodontica, fatta su quasi 800.000 pazienti (sì, avete letto bene!) che sono sopravvissuti ad un ricovero in terapia intensiva in Corea del Sud tra il 2015 e il 2019. I ricercatori hanno seguito queste persone per un periodo che arriva fino a 7 anni dopo le dimissioni. L’obiettivo? Capire se chi sviluppava depressione o ansia dopo l’esperienza in TI, o chi già ne soffriva prima, avesse un rischio maggiore di morire negli anni successivi rispetto a chi non aveva questi disturbi.
I risultati, amici miei, sono piuttosto eloquenti. Preparatevi, perché i numeri parlano chiaro.
La Sindrome Post-Terapia Intensiva (PICS): un nemico da conoscere
Prima di snocciolare i dati, è importante capire un concetto: la Sindrome Post-Terapia Intensiva (PICS). Non è una malattia specifica, ma un insieme di problemi fisici, cognitivi e, appunto, mentali che possono colpire chi è passato per la TI. Pensateci: l’ambiente della terapia intensiva è stressante al massimo, tra macchinari, procedure invasive, isolamento e la costante lotta per la vita. È normale che un’esperienza del genere lasci delle cicatrici, non solo sul corpo.
Lo studio evidenzia che circa un terzo dei sopravvissuti alla TI soffre di disturbi psichiatrici, e tra questi i più comuni sono proprio la depressione (che può colpire fino al 29-34% dei pazienti) e l’ansia (fino al 25-46%). Spesso, questi sintomi persistono anche a un anno di distanza dalle dimissioni. Insomma, non è una passeggiata.
I numeri che fanno riflettere: diagnosi pre o post TI?
Torniamo allo studio. I ricercatori hanno diviso i pazienti in tre gruppi:
- Chi aveva una diagnosi di depressione o ansia prima del ricovero in TI.
- Chi ha ricevuto una nuova diagnosi di depressione o ansia entro un anno dalle dimissioni dalla TI.
- Il gruppo di controllo, ovvero chi non aveva diagnosi di questi disturbi né prima né dopo.
Ebbene, i risultati sono stati analizzati con modelli statistici complessi (le famose regressioni di Cox, per i più tecnici) per “pulire” i dati da altri fattori che potrebbero influenzare la mortalità (come età, sesso, altre malattie preesistenti, gravità della condizione che ha portato in TI, ecc.).
Ecco il succo:
- I sopravvissuti alla TI che hanno ricevuto una nuova diagnosi di depressione o ansia dopo le dimissioni hanno mostrato un rischio di mortalità a lungo termine aumentato del 17% (Hazard Ratio aggiustato, aHR = 1.17) rispetto a chi non aveva questi disturbi.
- Se guardiamo specificamente alla depressione diagnosticata ex novo, il rischio sale addirittura al 28% (aHR = 1.28). Un dato che fa davvero pensare!
- Per l’ansia diagnosticata ex novo, l’aumento del rischio è stato dell’8% (aHR = 1.08).
- E chi aveva già una diagnosi prima della TI? Anche per loro c’è un aumento del rischio, ma leggermente inferiore: un 8% in generale per depressione o ansia (aHR = 1.08), un 12% per la sola depressione preesistente (aHR = 1.12) e un 4% per la sola ansia preesistente (aHR = 1.04).
Quindi, la botta più grossa sembra prenderla chi sviluppa questi problemi dopo l’esperienza traumatica della terapia intensiva, specialmente se si tratta di depressione. È come se l’impatto psicologico del ricovero critico agisse da detonatore, con conseguenze pesanti sulla sopravvivenza a lungo termine.

Perché questa differenza? E cosa possiamo fare?
Lo studio suggerisce che una diagnosi di depressione o ansia entro un anno dalle dimissioni dalla TI potrebbe essere un chiaro segnale delle sequele psicologiche dirette della degenza critica. Questi pazienti, infatti, tendevano ad aver avuto degenze più lunghe in TI e una maggiore probabilità di aver necessitato di ventilazione meccanica, fattori già noti per aumentare il rischio di problemi psicologici.
La depressione, in particolare, è un osso duro. È già noto che peggiora l’esito di molte malattie croniche (cardiovascolari, respiratorie, diabete) e questo studio rinforza l’idea che il suo impatto sia significativo anche dopo un evento acuto come un ricovero in TI.
Cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Che non basta salvare la vita in terapia intensiva. È fondamentale prendersi cura della salute mentale dei sopravvissuti. Questi risultati, dicono i ricercatori, sottolineano l’urgenza di implementare interventi psicologici mirati per migliorare la sopravvivenza a lungo termine di queste persone. Pensiamo a cliniche di follow-up post-TI multidisciplinari, dove psicologi e psichiatri lavorino a fianco degli altri specialisti.
Certo, lo studio ha delle limitazioni, come ammettono gli stessi autori. Ad esempio, non hanno potuto tener conto di tutti i possibili fattori confondenti (come stile di vita, supporto sociale post-dimissione) o della gravità esatta della malattia all’ingresso in TI usando punteggi standard. Inoltre, le diagnosi si basano su codici medici, che potrebbero non catturare tutti i casi o avere imprecisioni. Ma la dimensione del campione è talmente vasta che i risultati rimangono comunque molto, molto significativi.
Un monito per il futuro
Insomma, amici, questo studio è un vero e proprio campanello d’allarme. Ci dice che l’esperienza della terapia intensiva può lasciare un’eredità pesante sulla psiche, e che questa eredità può avere conseguenze dirette sulla nostra aspettativa di vita. È un invito a non sottovalutare mai i segnali di ansia e depressione, specialmente dopo un evento così traumatico. E, soprattutto, è un appello al sistema sanitario affinché si attrezzi per offrire un supporto psicologico continuativo e accessibile a chi ha lottato tanto per sopravvivere.
Perché vincere la battaglia in terapia intensiva è fondamentale, ma vincere la guerra per una vita piena e serena dopo, lo è ancora di più.

Spero che questa riflessione vi sia stata utile. A volte, la scienza ci sbatte in faccia verità scomode, ma è solo conoscendole che possiamo sperare di cambiare le cose in meglio.
Fonte: Springer
