Immagine fotorealistica di un medico che osserva attentamente un monitor angiografico durante un intervento coronarico percutaneo (PCI) in una sala operatoria moderna. Accanto al monitor, una rappresentazione grafica 3D stilizzata ma dettagliata di una molecola di dapagliflozin che interagisce con cellule cardiache e renali, simboleggiando protezione. Luce focalizzata sul monitor e sulla molecola, profondità di campo che sfoca leggermente lo sfondo della sala, prime lens 50mm, dettagli nitidi sul monitor e sulla struttura molecolare.

Dapagliflozin: Uno Scudo per il Cuore (e Forse per i Reni?) nei Pazienti Diabetici Sottoposti ad Angioplastica

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa che sta davvero cambiando le carte in tavola per chi, come me, si occupa di cuore e diabete. Parliamo di pazienti con diabete di tipo 2 (T2DM) e sindrome coronarica cronica (CCS), persone che spesso si trovano a dover affrontare un intervento coronarico percutaneo (PCI), la cosiddetta angioplastica con stent, per capirci. Ebbene, c’è una classe di farmaci, gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT2), che sta facendo faville. Tra questi, la dapagliflozin sembra avere un ruolo da protagonista.

Ma cosa sapevamo già?

Non è un segreto che gli inibitori SGLT2 siano dei veri campioni nel ridurre i rischi cardiovascolari e renali nei pazienti con diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari (CVD) o malattia renale cronica (CKD). Funzionano in modo intelligente: bloccano il riassorbimento del glucosio nei reni, facendocelo eliminare con le urine (glucosuria). Questo non solo abbassa la glicemia, ma sembra avere effetti benefici a cascata su cuore e reni, forse agendo su scambiatori ionici (NHE1 nel cuore, NHE3 nei reni) e riducendo il precarico cardiaco tramite diuresi.

Tuttavia, quando si parla specificamente del momento delicato dell’angioplastica (PCI), la situazione si fa più… nebulosa. L’intervento stesso, soprattutto per l’uso del mezzo di contrasto, può mettere a dura prova i reni, causando quello che chiamiamo danno renale acuto indotto da contrasto (CI-AKI). E qui nasce la domanda: questi farmaci SGLT2, così bravi in generale, riescono a proteggere anche in questa situazione specifica? Gli studi finora erano un po’ controversi, soprattutto riguardo ai benefici renali post-PCI.

La Domanda Cruciale del Nostro Studio

Ecco perché ci siamo messi al lavoro. La domanda che ci frullava in testa era: la dapagliflozin offre una protezione specifica, sia cardiaca che renale, proprio in quei pazienti con diabete di tipo 2 e sindrome coronarica cronica che devono sottoporsi a un’angioplastica? Volevamo vederci chiaro!

Abbiamo quindi condotto uno studio retrospettivo, analizzando i dati di un grande ospedale terziario (il Beijing Hospital) raccolti tra il 2018 e il 2022. Abbiamo “pescato” i dati di 1430 pazienti che rispondevano ai nostri criteri: adulti con T2DM e CCS sottoposti a PCI. Li abbiamo divisi in due gruppi: chi assumeva dapagliflozin da almeno 7 giorni prima dell’intervento e chi non assumeva nessun inibitore SGLT2. Per rendere il confronto il più equo possibile, abbiamo usato una tecnica statistica chiamata propensity score matching (PSM), che ci ha permesso di “accoppiare” 176 pazienti del gruppo dapagliflozin con 176 pazienti del gruppo di controllo molto simili per caratteristiche di base (età, sesso, altre malattie, farmaci, ecc.).

Cosa siamo andati a vedere? Principalmente due cose:

  • Outcome cardiaco: L’infarto miocardico periprocedurale (PMI) o l’infarto di tipo 4a (4aMI), definiti da un aumento significativo di un marcatore cardiaco (la troponina I) nelle 48 ore dopo la PCI, a volte accompagnato da sintomi o segni specifici.
  • Outcome renale: Il già citato CI-AKI, valutato secondo due criteri internazionali (ESUR e KDIGO), basati sull’aumento della creatinina sierica dopo l’intervento. Abbiamo anche monitorato la funzione renale generale tramite la stima della velocità di filtrazione glomerulare (eGFR).

Fotografia macro di un tubulo renale prossimale con trasportatori SGLT2 evidenziati in blu, accanto a un'immagine stilizzata di un catetere per intervento coronarico percutaneo con uno stent espanso. Illuminazione controllata e precisa, alta definizione dei dettagli cellulari e metallici, lente macro 100mm.

Risultati: Il Cuore Ringrazia!

Ebbene, i risultati sul fronte cardiaco sono stati davvero incoraggianti. Sia prima che dopo il “pareggiamento” statistico (PSM), i pazienti che assumevano dapagliflozin hanno mostrato tassi significativamente più bassi di infarto miocardico legato alla procedura (PMI/4aMI).

  • Pre-PSM: 39.78% nel gruppo dapagliflozin vs 66.99% nel controllo (p < 0.001)
  • Post-PSM: 39.77% nel gruppo dapagliflozin vs 60.23% nel controllo (p < 0.001)

Anche dopo aver aggiustato i dati per tenere conto di altre possibili variabili confondenti, la protezione offerta da dapagliflozin è rimasta forte e chiara (OR aggiustato 0.436, p < 0.001). In pratica, il rischio di danno cardiaco durante l'angioplastica si riduceva notevolmente! Abbiamo anche fatto delle analisi per sottogruppi, e qui le cose si fanno ancora più interessanti. La protezione cardiaca della dapagliflozin sembrava essere ancora più marcata in alcuni gruppi considerati a rischio più alto:

  • Pazienti con età ≥ 65 anni
  • Pazienti con malattia coronarica multivasale (cioè con più arterie del cuore malate)
  • Pazienti che avevano ricevuto volumi più alti di mezzo di contrasto (≥ 150 mL), spesso indice di procedure più complesse.

Questo suggerisce che proprio chi ne ha più bisogno potrebbe trarre il massimo beneficio.

E i Reni? Una Storia più Sfumata

Passiamo ai reni. Qui, i risultati sono stati meno netti. Analizzando l’incidenza del danno renale acuto indotto da contrasto (CI-AKI), non abbiamo trovato differenze statisticamente significative tra il gruppo dapagliflozin e il gruppo di controllo, né prima né dopo il PSM, e nemmeno dopo gli aggiustamenti statistici (tutti i p > 0.05). Sembrerebbe quindi che, almeno in questo studio e con questi criteri, la dapagliflozin non abbia ridotto in modo significativo il rischio di questo specifico tipo di danno renale acuto post-PCI.

MA… c’è un ma!
Primo, le analisi per sottogruppi hanno mostrato qualche segnale incoraggiante: anche per i reni, i benefici sembravano più pronunciati nei pazienti anziani (≥ 65 anni), con malattia multivasale e che avevano ricevuto più mezzo di contrasto. Forse in questi gruppi a maggior rischio renale, un effetto protettivo, seppur non statisticamente significativo nell’analisi generale, inizia a farsi notare.

Secondo, e forse ancora più importante, quando abbiamo guardato la funzione renale generale misurata con l’eGFR, abbiamo notato qualcosa di interessante. I pazienti nel gruppo dapagliflozin avevano valori di eGFR significativamente migliori sia prima dell’intervento che dopo, rispetto al gruppo di controllo. Questo suggerisce che la dapagliflozin potrebbe contribuire a preservare la funzione renale nel tempo, anche se non previene l’episodio acuto di CI-AKI definito dai criteri standard. È come se aiutasse i reni a “tenere botta” meglio, in generale.

Fotografia di un cuore umano stilizzato ma realistico, protetto da uno scudo trasparente con la formula chimica della dapagliflozin. Sullo sfondo, un grafico a barre discendente che indica la riduzione degli eventi cardiaci (PMI/4aMI). Profondità di campo ridotta, focus sullo scudo e sul cuore, prime lens 50mm, luce calda e rassicurante.

Cosa Ci Portiamo a Casa?

Questo studio, per quanto ne sappiamo, è il primo a collegare specificamente l’uso di dapagliflozin a una riduzione degli eventi di infarto miocardico periprocedurale (PMI/4aMI) in pazienti con diabete di tipo 2 e sindrome coronarica cronica sottoposti ad angioplastica. È una notizia importante!

Ci dice che iniziare la dapagliflozin almeno una settimana prima della PCI potrebbe essere una strategia valida per ridurre il rischio cardiaco legato alla procedura stessa, specialmente nei pazienti più fragili o con malattia più complessa.

Riguardo ai reni, la situazione è più complessa. Non abbiamo visto una riduzione significativa del CI-AKI “classico”, ma i dati sull’eGFR e le analisi di sottogruppo suggeriscono che un certo grado di protezione renale potrebbe comunque esserci, anche se forse si manifesta in modo diverso o richiede studi più ampi per essere confermato statisticamente. La ricerca sui meccanismi (forse legati all’autofagia cellulare, come suggerito da altri studi?) e sugli effetti a lungo termine dovrà continuare.

Limiti e Prospettive Future

Ovviamente, come ogni studio, anche il nostro ha dei limiti. È retrospettivo, basato sui dati di un singolo centro, e la dimensione del campione, seppur non piccola, potrebbe non essere sufficiente per cogliere effetti più sottili o per analisi di sottogruppo molto dettagliate. Inoltre, non abbiamo valutato gli esiti a lungo termine.

Serviranno sicuramente studi più grandi, multicentrici e magari prospettici per confermare questi risultati e per capire meglio l’impatto renale della dapagliflozin in questo contesto specifico.

Immagine composita fotorealistica: a sinistra, un rene umano dettagliato con un grafico sovrapposto che mostra la stabilità della funzione renale (eGFR); a destra, una fiala di mezzo di contrasto iodato accanto a una siringa. Alta definizione, illuminazione da studio bilanciata, lente macro 85mm per i dettagli del rene e della fiala.

In conclusione, però, il messaggio chiave è forte: la dapagliflozin sembra offrire una robusta protezione cardiaca ai pazienti diabetici con malattia coronarica cronica che affrontano un’angioplastica, soprattutto se ad alto rischio. Sul fronte renale, la partita è ancora aperta, ma i segnali sulla preservazione della funzione renale generale sono promettenti. Un’arma in più, quindi, da considerare attentamente nella gestione di questi pazienti complessi. E questo, lasciatemelo dire, è un passo avanti notevole!

Fonte: Springer

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