Un gruppo eterogeneo di donne sorridenti che ballano insieme in cerchio durante un vivace corso di danza comunitaria, simboleggiando l'inclusione e la gioia. Obiettivo grandangolare, 24mm, colori caldi e luminosi, catturando il movimento e la connessione tra le partecipanti in un ambiente accogliente.

Danzare Insieme per la Giustizia: Un Progetto Comunitario che Trasforma l’Inclusione

Ehi, ciao a tutti! Oggi voglio raccontarvi una storia che mi sta particolarmente a cuore, una di quelle avventure che ti cambiano un po’ il modo di vedere le cose. Parliamo di come un’idea, nata quasi per caso, possa trasformarsi in uno strumento potente per costruire ponti, abbattere muri e, udite udite, “coprodurre giustizia”. Sì, avete letto bene. Non si tratta solo di distribuire risorse in modo più equo, ma di creare insieme, fianco a fianco con le comunità, qualcosa di significativo che parli la loro lingua e risponda ai loro bisogni.

Immaginatevi la scena: siamo a Leicester, una città vivace, multiculturale, ma anche con le sue belle sacche di deprivazione e disuguaglianze sanitarie. Come coinvolgere davvero le persone, soprattutto quelle che di solito restano ai margini, nelle grandi discussioni sulla salute e sulla ricerca? La solita solfa – inviti formali, questionari, focus group in orari improbabili – spesso non funziona. Anzi, rischia di allargare ancora di più il divario. Ecco, qui entra in gioco la nostra scommessa: la danza.

Perché proprio la Danza? E perché le Comunità Sud-Asiatiche?

Vi chiederete: “Ma che c’entra la danza con la ricerca scientifica e la salute pubblica?”. Beh, pensateci un attimo. Le arti, in generale, hanno una capacità pazzesca di coinvolgere il pubblico, molto più di quanto riescano a fare, a volte, le scienze pure. E se la scienza vuole costruire fiducia, stimolare un cambiamento nei comportamenti legati alla salute, allora fare squadra con l’arte non è solo una mossa furba, ma una strategia con un potenziale enorme.

Nel nostro caso, ci siamo concentrati sulle comunità sud-asiatiche di Leicester, in particolare sulle donne provenienti da quartieri con difficoltà socio-economiche. Perché loro? Perché, dati alla mano, queste comunità sono colpite in modo sproporzionato da problemi come il diabete di tipo 2. E spesso, le campagne di sensibilizzazione tradizionali non fanno breccia. Non per mancanza di volontà, ma perché non tengono conto del contesto culturale, sociale, delle difficoltà quotidiane.

La danza, specialmente stili come il Bollywood, è qualcosa di culturalmente vicino, divertente, un’attività socializzante e accettata per le donne. Non è la “fatica” della palestra, ma un modo per muoversi, stare insieme, scaricare lo stress e, perché no, imparare qualcosa sulla propria salute. L’idea era semplice: offrire qualcosa di bello e coinvolgente, e su quella base costruire relazioni, fiducia e, alla fine, un dialogo costruttivo sulla salute e sulla ricerca.

Un Viaggio Iterativo: Imparare Facendo (e Ballando!)

Non avevamo la ricetta magica in tasca, sia chiaro. Abbiamo adottato un approccio di “ricerca-azione”. Che parolona, eh? In pratica, significa che abbiamo costruito il progetto passo dopo passo, o meglio, ciclo dopo ciclo, imparando dagli errori, ascoltando i partecipanti e adattando continuamente il tiro. Tra il 2017 e il 2024 abbiamo completato sette di questi cicli, e qui vi racconto i primi cinque, quelli che hanno gettato le basi.

All’inizio, le nostre ambizioni erano modeste: creare contatti, capire cosa funzionasse. Abbiamo provato diverse formule: lezioni di danza gratuite per bambini mentre i genitori parlavano con i ricercatori, lezioni per adolescenti, lezioni per adulti seguite da discussioni sulla salute. Indovinate un po’ cosa ha funzionato alla grande? Le lezioni di danza per adulti! C’era un entusiasmo contagioso, il passaparola ha fatto il resto e ben presto abbiamo dovuto gestire liste d’attesa.

Un aspetto cruciale è stato che noi ricercatori (sì, anch’io mi sono messa in gioco sulla pista da ballo, con risultati alterni, ve lo assicuro!) partecipavamo attivamente. Ballare insieme, ridere degli stessi passi goffi, ha contribuito a smantellare un po’ quelle barriere di potere che spesso si creano tra “esperti” e “comunità”. Si creava un’atmosfera di fiducia, di condivisione.

Un gruppo multietnico di donne di mezza età che partecipano con gioia a una lezione di danza Bollywood in una sala comunitaria luminosa e accogliente. Prime lens, 35mm, colori vivaci, profondità di campo per mettere a fuoco le espressioni felici.

Col tempo, il focus si è spostato. Inizialmente eravamo molto concentrati sul diabete, una priorità per i centri di ricerca coinvolti. Ma ascoltando le donne, abbiamo capito che i loro interessi erano più ampi. Si è iniziato a parlare di salute in generale, di menopausa, di benessere mentale. Questo è stato un passaggio fondamentale: il progetto si stava evolvendo verso una vera e propria coproduzione, dove le partecipanti diventavano sempre più protagoniste nel definire i contenuti e le direzioni.

Cosa Abbiamo Imparato: Successi, Sfide e Capitale Sociale

I risultati sono andati ben oltre il semplice coinvolgimento nella ricerca. Certo, siamo riusciti a raggiungere comunità che di solito sono sottorappresentate, e questo è già un gran traguardo. Ma c’è di più. Il progetto ha avuto un effetto empowering pazzesco sulle donne partecipanti. Hanno iniziato a prendere iniziativa, a organizzarsi, a sentirsi più sicure e connesse.

Pensate che in uno dei quartieri, Oadby Wigston, quando i finanziamenti iniziali per le lezioni sono terminati, le donne si sono autotassate per continuare! Hanno trovato un’istruttrice di Garba (un altro tipo di danza tradizionale) e hanno continuato a incontrarsi, invitando me, la ricercatrice, a partecipare alle loro discussioni sulla salute. Questo è stato un momento potentissimo: il potere si era ribaltato. Erano loro a invitarci nel loro spazio, secondo i loro termini.

Questo ci porta a un concetto chiave: il capitale sociale. Ballare insieme, condividere esperienze, ha creato legami forti (bonding) all’interno del gruppo. Ma ha anche costruito ponti (bridging) con il mondo della ricerca e dei servizi sanitari. Le donne si sentivano più informate, più capaci di prendersi cura della propria salute e di quella delle loro famiglie, e anche più connesse tra loro, riducendo quell’isolamento sociale che è un noto fattore di rischio per la salute.

Non è stato tutto rose e fiori, ovviamente. In un quartiere, Spinney Hill, a maggioranza musulmana e con maggiori difficoltà socio-economiche, abbiamo faticato di più a coinvolgere le persone. Questo ci ha insegnato una lezione importante: non si possono trattare le “comunità minoritarie” come un blocco omogeneo. Ogni gruppo ha le sue specificità, le sue esigenze, e forse lì ci mancava un partner progettuale con una competenza culturale più specifica, o forse il tipo di danza o l’istruttore (che in quel caso era maschio) non erano la scelta ideale. Anche la qualità del luogo d’incontro conta: un ambiente freddo e poco curato non aiuta a sentirsi accolti.

Dalla Pratica alla “Praxis”: Verso una Giustizia Relazionale

Questo viaggio ci ha trasformato, come ricercatori e come persone. Siamo passati da un approccio guidato principalmente dalle politiche e dagli obiettivi operativi, a uno più critico, riflessivo, informato dalla teoria. In termini di ricerca-azione, si parla di un passaggio dalla “pratica” alla “praxis”, dove teoria, pensiero e azione si fondono in una filosofia pratica.

Abbiamo capito che per raggiungere una vera inclusione nel coinvolgimento pubblico, non basta “rimuovere le barriere” ai modelli esistenti. Bisogna ristrutturare il concetto stesso di coinvolgimento, renderlo significativo e accessibile oltre le norme della cultura dominante. Questo significa andare oltre la giustizia redistributiva (dare a tutti le stesse opportunità di accedere a risorse esistenti) per abbracciare una giustizia relazionale: collaborare per creare insieme modelli di coinvolgimento che siano davvero accessibili e significativi per tutte le comunità.

Due donne, una ricercatrice con un taccuino e una partecipante della comunità sud-asiatica sorridente, sedute a un tavolo in un centro comunitario luminoso, che discutono animatamente e con complicità, con tazze di tè e biscotti tra loro. Obiettivo da ritratto, 50mm, luce naturale soffusa che entra da una finestra, espressioni autentiche di dialogo e connessione.

Il nostro progetto “Dance and Health” (inizialmente “Dance and Diabetes”) ha dimostrato che un approccio basato sulle arti può essere incredibilmente efficace. La danza è stata uno strumento fantastico per:

  • Costruire relazioni di fiducia.
  • Offrire specificità culturale.
  • Creare un senso di coesione e appartenenza.
  • Ridurre l’isolamento sociale.
  • Fornire un’opportunità per l’attività fisica in modo divertente.
  • Facilitare discussioni sulla salute in un contesto informale e accogliente.
  • E, soprattutto, dare potere alle partecipanti, trasformandole da destinatarie passive a protagoniste attive.

Certo, la sostenibilità di questi progetti è una sfida costante. I finanziamenti per il coinvolgimento pubblico e comunitario sono spesso a breve termine e insufficienti. Ma i benefici, come abbiamo visto, vanno ben oltre il singolo progetto. Investire in questo tipo di iniziative significa investire nel capitale sociale delle comunità, nella loro salute, e in una società più giusta ed equa.

L’esperienza di Leicester ci dice che è possibile. Che quando ci si mette in ascolto, si è disposti a mettersi in gioco e a co-costruire, anche un passo di danza può diventare un passo verso la giustizia. E questa, lasciatemelo dire, è una musica che vale davvero la pena ballare.

Il progetto, per fortuna, non si è fermato. Continua a evolversi, con un nuovo team che porta avanti questa filosofia di riflessione incorporata nella pratica, estendendosi anche ad altre comunità, come quella afro-caraibica di Leicester. Perché ogni comunità ha la sua danza, e il nostro compito è trovare il ritmo giusto per ballare insieme.

Fonte: Springer

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