Credenza Comune e Finzione: La Magia del “Facciamo Finta Che”
Avete presente quei giochi che facevamo da bambini, quelli del “facciamo finta che”? Io li adoravo! Un semplice bastone diventava una spada invincibile, il divano una fortezza inespugnabile. Ecco, pensate che questa stessa dinamica, secondo alcuni studiosi come Kendall Walton, è alla base del nostro rapporto con l’arte: film, romanzi, quadri… sono tutti inviti a partecipare a un sofisticato gioco di “make-believe”, di finzione.
La teoria di Walton, esposta nel suo celebre “Mimesis as Make-Believe”, è affascinante. In pratica, quando ci immergiamo in una storia, usiamo degli “oggetti di scena” (props) – il libro stesso, le immagini sullo schermo, i ceppi d’albero in un gioco all’aperto – che, combinati con certe “regole di generazione”, ci dicono cosa dobbiamo immaginare. Se nel gioco “i ceppi sono orsi”, e c’è un ceppo alla mia sinistra, allora è vero nella finzione che c’è un orso alla mia sinistra. Semplice, no? Beh, non proprio.
L’Inghippo del Ceppo Nascosto (e degli Anatroccoli Sfortunati)
Qui le cose si complicano un po’ e, devo dire, mi hanno sempre lasciato un filino perplesso. Immaginiamo, come fa Walton, che io e un amico, chiamiamoli Gregory ed Eric, stiamo giocando nel bosco. La regola è: “i ceppi sono orsi”. Se c’è un ceppo nascosto dietro un cespuglio, che nessuno dei due vede, secondo Walton è comunque vero nella finzione che lì c’è un orso. Un orso invisibile e inattivo, magari, ma pur sempre un orso.
Fin qui, passi. Ma cosa succede se modifichiamo un po’ il gioco? Supponiamo che Gregory ed Eric debbano “paralizzare” tutti gli orsi (toccando i ceppi) per salvare un gruppo di anatroccoli che sta per passare. I ragazzi toccano tutti i ceppi che vedono, si congratulano, fine del gioco. Peccato che, a loro insaputa, c’era quel famoso ceppo nascosto. Risultato? Secondo la teoria di Walton, un orso è rimasto sveglio e… addio anatroccoli! Massacro di piume gialle, tutto perché un fatto sconosciuto del mondo reale (il ceppo nascosto) ha interferito con la loro finzione. Loro si credevano eroi, ma nella “verità” del loro gioco, hanno fallito miseramente. Non vi sembra un po’ crudele e, soprattutto, controintuitivo?
Questa idea che fatti sconosciuti possano determinare la verità di una finzione mi ha sempre fatto storcere il naso. È come se la storia che stiamo creando insieme ci sfuggisse di mano a causa di dettagli che ignoriamo completamente.
L’Ispirazione: Quando la Credenza Collettiva Conta
Per cercare una via d’uscita, mi sono ispirato a discussioni simili che riguardano come “importiamo” informazioni di sfondo nelle finzioni. Pensate a Sherlock Holmes: nei romanzi non c’è scritto che l’acqua è H₂O o che le balene sono mammiferi, ma diamo per scontato che sia vero nel suo mondo. Come mai? Filosofi come Lewis e lo stesso Walton hanno suggerito che non importiamo tutto il mondo reale così com’è, ma piuttosto ciò che era credenza comune all’epoca dell’autore e dei suoi lettori.
Se Doyle e i suoi lettori credevano comunemente che l’acqua fosse H₂O, allora è vero nel mondo di Holmes. Se invece, in una cultura immaginaria, tutti credessero che la Terra è piatta e che avventurarsi troppo in mare significhi cadere nel vuoto, allora in una storia scritta in quella cultura, i marinai che si spingono al largo sarebbero davvero in pericolo, anche se noi sappiamo che la Terra è rotonda. Questo approccio basato sulla “credenza comune” evita che fatti sconosciuti o poco noti all’epoca rovinino la trama (come il fatto, scoperto poi, che le vipere non possono arrampicarsi sulle corde, mettendo in crisi la soluzione di Holmes in “The Adventure of the Speckled Band”).
E se applicassimo un principio simile non solo alle verità “importate” ma anche a quelle generate direttamente dagli oggetti di scena?
La Proposta: La Verità della Finzione si Basa sulla Nostra “Credenza Comune”
Ecco la mia idea, che chiamo “l’approccio della credenza comune”: i principi di generazione condizionali (tipo “se c’è un ceppo, allora immagina un orso”) sono validi solo se si riferiscono a oggetti di scena la cui esistenza e natura sono credenza comune tra i partecipanti al gioco. Quindi, non “tutti i ceppi sono orsi”, ma “tutti i ceppi la cui esistenza è credenza comune tra noi sono orsi”.
Torniamo a Gregory ed Eric e agli anatroccoli. Se entrambi credono (e credono che l’altro creda, e così via all’infinito – questa è la “credenza comune”) che non ci siano altri ceppi oltre a quelli che hanno toccato, allora è vero nella loro finzione che non ci sono altri orsi. E quindi, sì, hanno salvato gli anatroccoli! Il ceppo nascosto, non essendo parte della loro credenza comune, semplicemente non entra in gioco. La verità della finzione diventa così qualcosa di più collaborativo e dinamico.
- Collaborativo: Se Gregory vede un ceppo ma non lo dice a Eric (e non diventa credenza comune), quel ceppo non genera un orso nella loro finzione condivisa. Magari lo genera nella finzione “privata” di Gregory, ma non in quella collettiva.
- Dinamico: Man mano che i partecipanti esplorano e le loro credenze comuni sugli oggetti di scena aumentano, anche le verità della finzione si espandono. All’inizio del gioco nel bosco, magari è indeterminato se ci sia un orso in un angolo non ancora esplorato. Dopo aver controllato, e aver stabilito una credenza comune, la finzione si arricchisce di una nuova verità (o falsità).
Questo approccio mi sembra più fedele a come viviamo davvero i giochi di finzione e l’arte. Quando leggo un romanzo, le verità della storia si costruiscono man mano che procedo, basate su ciò che il testo mi rivela e che io (e implicitamente, la comunità di lettori) accetto come “reale” in quel mondo.
E se Poi Scopriamo il Ceppo? L’Obiezione dell’Oggettività
Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma la finzione non dovrebbe essere qualcosa di oggettivo, indipendente da quello che pensano i partecipanti?”. È una critica sensata. Walton stesso sottolinea che se i bambini, durante il gioco, scoprono un ceppo che prima non avevano visto, direbbero: “Falso allarme. Non c’era un orso lì, dopotutto” oppure “Ah, quindi c’era un orso lì da sempre, anche se non lo sapevamo!”. Sembra che la verità della finzione sia stabile e preesistente.
Come risponde il mio approccio della credenza comune? Ammettendo la possibilità di cambiamenti retroattivi nella verità della finzione. Quando il ceppo nascosto viene scoperto, diventa credenza comune che quel ceppo fosse lì da sempre. Quindi, il principio di generazione aggiornato (“Se è credenza comune che ci sia un ceppo al tempo t, allora immagina un orso al tempo t'”) fa sì che diventi vero ora, nella finzione, che c’era un orso lì anche prima. Non è che un orso appare magicamente; piuttosto, la nostra comprensione della storia della finzione si aggiorna retroattivamente. Pensateci: succede anche nel teatro d’improvvisazione o quando uno scrittore introduce un colpo di scena che ridefinisce eventi passati della narrazione.
È importante distinguere tra la prospettiva “interna” alla finzione (quella dei personaggi o dei giocatori immersi nel gioco) e quella “esterna” (quella di chi analizza la finzione). Internamente, non si direbbe “prima non c’era un orso, ora sì”. Esternamente, si può dire: “Al tempo t1, credevano che non ci fosse un orso; al tempo t2, avendo scoperto il ceppo, ora è vero nella loro finzione che un orso c’era fin dall’inizio al tempo t1′”.
E se Qualcuno “Manca un Pezzo”? Il Caso di Mia e del Libro Incollato
Un’altra sfida: cosa succede se in un gioco con molti partecipanti, solo uno non vede un ceppo? O se una lettrice, Mia, legge una copia dell’Hobbit con delle pagine incollate e salta una parte importante? Sembra intuitivo dire che loro “si perdono” delle verità della finzione che per gli altri sono ovvie.
Qui ci sono due strade. La prima è passare a una “credenza comune generale”: basta che la maggioranza dei partecipanti creda qualcosa. Se 11 bambini su 12 vedono il ceppo, allora è credenza comune generale che ci sia, e il dodicesimo si sta perdendo un pezzo della finzione collettiva. Questo funziona bene per i giochi di gruppo.
Per Mia e il suo libro, forse è più utile la distinzione di Walton tra “oggetti di scena ad hoc” (come i ceppi) e “rappresentazioni” (opere d’arte come i romanzi). Le rappresentazioni hanno una funzione sociale, quella di servire da oggetti di scena in giochi “autorizzati”. Un gioco è autorizzato se rispetta l’opera nella sua interezza. Mia, leggendo una versione incompleta, sta giocando un gioco “non autorizzato” e quindi si perde delle verità della rappresentazione (dell’Hobbit come opera), anche se magari non della sua personale e limitata esperienza di gioco.
Domande Aperte e Orizzonti Futuri
L’approccio della credenza comune, pur risolvendo a mio avviso l’impasse degli anatroccoli, apre nuove questioni intriganti. Cosa succede se le credenze sono “sfumate” (es. “siamo sicuri al 70% che ci sia un ceppo lì”)? La verità della finzione diventa anch’essa sfumata? E se i partecipanti mentono sulle loro credenze, basterebbe una “comune accettazione” invece di una credenza genuina?
Sono tutte domande che meritano di essere esplorate, perché toccano il cuore di come interagiamo con le storie, con l’arte e, in fondo, con la nostra stessa capacità di immaginare mondi. Credo che dare più peso a ciò che insieme decidiamo di credere renda l’esperienza della finzione più ricca, più partecipata e, in un certo senso, più umana. Non si tratta di negare l’oggettività del mondo reale, ma di riconoscere che nel regno del “facciamo finta che”, le regole le stabiliamo noi, insieme.
In definitiva, l’idea che la verità in una finzione possa dipendere dalle nostre credenze condivise sugli “oggetti di scena” mi sembra restituire ai partecipanti – che siano bambini che giocano o adulti che leggono un romanzo – un ruolo più attivo e centrale nella creazione di quei mondi immaginari che tanto ci affascinano. E forse, rende anche giustizia a quegli anatroccoli, salvandoli da un destino crudele dettato da un ceppo invisibile!
Fonte: Springer