COVID-19 e Cervello: Il Virus Entra Davvero nel Sistema Nervoso? La Risposta dalla Genetica
Ciao a tutti! Sono qui oggi per parlarvi di una questione che ha tenuto banco fin dall’inizio della pandemia: il COVID-19 può davvero “entrare” nel nostro cervello e nel sistema nervoso? Molti di noi hanno sentito parlare o hanno sperimentato sintomi neurologici post-infezione – dalla famigerata “nebbia cognitiva” a mal di testa persistenti, perdita di olfatto e gusto, fino a problemi più seri. Ma si tratta di un’invasione diretta del virus o di effetti indiretti? Beh, abbiamo cercato di capirne di più usando un approccio davvero affascinante: la randomizzazione mendeliana.
La Domanda Cruciale: SARS-CoV-2 è Neuroinvasivo?
Fin dall’inizio, circa il 30% dei pazienti COVID-19 ha riportato sintomi neurologici. Le ipotesi sui meccanismi sono state tante:
- Invasione diretta del virus nel cervello (attraverso i nervi o il sangue).
- Ischemia cerebrale (mancanza di ossigeno).
- Fusione neuronale indotta dal virus.
- Una tempesta di citochine che infiamma anche il cervello.
Molti studi hanno analizzato citochine e proteine nel sangue, ma i risultati sono stati spesso contrastanti e pochi si sono concentrati sul liquido cerebrospinale (CSF), il fluido che bagna il nostro cervello e midollo spinale, una finestra molto più diretta su ciò che accade nel sistema nervoso centrale.
Il Detective Genetico: La Randomizzazione Mendeliana (MR)
Per cercare di stabilire un legame causale tra l’infezione da SARS-CoV-2 e le alterazioni nel sistema nervoso, abbiamo usato la randomizzazione mendeliana. Immaginatela come un modo per usare le nostre variazioni genetiche naturali come una sorta di “esperimento” assegnato casualmente alla nascita. Analizzando grandi database genetici (come UK Biobank e i dati della COVID-19 Host Genetics Initiative, tutti relativi a persone di origine europea), abbiamo cercato di capire se avere una predisposizione genetica a certi livelli di biomarcatori o a determinate caratteristiche cerebrali influenzasse il rischio o la gravità del COVID-19, e viceversa, se l’infezione da COVID-19 (come suscettibilità, ospedalizzazione, gravità) avesse un effetto causale su queste caratteristiche cerebrali o sui livelli di biomarcatori. È un metodo potente per superare alcuni limiti degli studi osservazionali tradizionali.
Cosa Ci Hanno Detto i Geni sul Cervello?
I risultati dell’analisi MR sono stati illuminanti. Abbiamo scoperto che l’ospedalizzazione per COVID-19 era causalmente associata a un aumento dell’area e del volume di una specifica regione cerebrale: il giro frontale medio caudale sinistro. Non solo, la gravità del COVID-19 era legata all’area e al volume della corteccia cingolata anteriore caudale destra e al volume della corteccia del cuneo destro. Queste aree sono coinvolte in funzioni cognitive, emotive e nell’elaborazione visiva. Sembra quindi che l’infezione, soprattutto nelle sue forme più severe, possa lasciare un’impronta fisica misurabile sul nostro cervello. Non abbiamo trovato, invece, prove significative che specifiche caratteristiche cerebrali preesistenti (derivate da imaging) aumentassero il rischio di contrarre il COVID-19.

Validazione nel Mondo Reale: Analisi su Pazienti
Ma la genetica da sola non basta. Per confermare questi sospetti, abbiamo condotto uno studio retrospettivo su un gruppo di 40 pazienti ricoverati al Peking Union Medical College Hospital tra il 2022 e il 2023, tutti con COVID-19 e sintomi neurologici confermati durante l’ondata di Omicron in Cina. Abbiamo confrontato i loro campioni di liquor (CSF) e plasma con quelli di 15 pazienti di controllo (con problemi neurologici come emorragia o infarto cerebrale, ma senza infezione recente da SARS-CoV-2). È importante notare che questo gruppo di validazione era etnicamente cinese, distinto dalla popolazione europea usata per l’analisi MR, il che rafforza la potenziale generalizzabilità dei risultati se fossero concordi.
Biomarcatori Sotto la Lente: Cosa C’era nel Liquor?
E qui le cose si fanno davvero interessanti! Abbiamo misurato i livelli di 18 diverse proteine nel CSF e nel plasma. I risultati?
- CHI3L1: I livelli nel CSF erano significativamente più alti nei pazienti COVID-19 (mediana 13677 pg/mL) rispetto ai controlli (mediana 8421 pg/mL). Questa proteina è legata all’infiammazione e al rimodellamento tissutale, anche nel cervello. Studi precedenti l’avevano già associata alla gravità del COVID-19 nel siero, ma trovarla elevata nel CSF è un indizio forte di neuroinfiammazione. L’analisi MR ha anche suggerito un legame causale tra CHI3L1 nel CSF e rischio di COVID-19.
- KLK6 (Callicreina-6): Anche i livelli di questa proteasi, espressa nel cervello, erano molto più alti nel CSF dei pazienti COVID-19 (mediana 46947 pg/mL) rispetto ai controlli (mediana 12186 pg/mL).
- NGF-β (Nerve Growth Factor-β): Questo neuropeptide, coinvolto nell’infiammazione neurogenica, era anch’esso significativamente elevato nel CSF dei pazienti COVID (mediana 1.20 pg/mL) rispetto ai controlli (mediana 0.42 pg/mL).
- Amiloide beta 1-42: Sorprendentemente, i livelli di questa proteina, nota per il suo ruolo nell’Alzheimer, erano significativamente più bassi nel CSF dei pazienti COVID-19. Questo è in linea con altre ricerche e il suo significato è ancora oggetto di studio, ma potrebbe legarsi all’interazione tra la proteina e il virus stesso o i recettori ACE2.
Nel plasma, abbiamo trovato livelli significativamente più alti di NRGN (Neurogranina), una molecola importante per la plasticità sinaptica, nei pazienti COVID-19.

Collegare i Puntini: Biomarcatori, Gravità e Sintomi
Abbiamo poi cercato di correlare questi biomarcatori con la clinica dei pazienti. E sono emerse altre conferme:
- GFAP (Proteina Acida Fibrillare Gliale): Livelli più alti nel CSF erano associati a sintomi da moderati a critici, a una diminuzione dello stato di coscienza e alla presenza di comorbidità. La GFAP è un marcatore di danno e infiammazione gliale.
- S100B: Similmente alla GFAP, livelli più alti nel CSF erano legati a diminuzione della coscienza e comorbidità. S100B è un noto marcatore di danno cerebrale e integrità della barriera emato-encefalica.
- NF-H (Neurofilamento a catena pesante): Livelli più alti nel CSF nei pazienti con diminuzione della coscienza, indicando danno neuronale strutturale.
- Tau e pT181: La proteina Tau totale era più alta nei pazienti con coinvolgimento del sistema nervoso centrale (CNS), mentre la forma fosforilata pT181 era più alta in quelli con comorbidità. Curiosamente, Tau era più bassa in pazienti con debolezza o intorpidimento.
- NRGN e NGF-β: Livelli più bassi nel CSF erano associati a sintomi di intorpidimento.
Questi risultati suggeriscono che specifici profili di biomarcatori nel CSF riflettono non solo la presenza dell’infezione con impatto neurologico, ma anche la sua gravità e il tipo di sintomi manifestati.
Conclusioni (Provvisorie): La Neuroinfiammazione è la Chiave?
Mettendo insieme i pezzi del puzzle – l’analisi genetica MR che mostra cambiamenti strutturali nel cervello legati a COVID-19 e l’analisi diretta sui pazienti che rivela un aumento significativo di biomarcatori infiammatori e di danno neuronale nel liquor – l’ipotesi che SARS-CoV-2 possa invadere o comunque influenzare pesantemente il sistema nervoso centrale guadagna terreno. La neuroinfiammazione sembra emergere come un meccanismo chiave alla base delle complicazioni neurologiche osservate.
Certo, ci sono delle limitazioni. L’analisi MR si è basata su popolazioni europee, la validazione su un gruppo relativamente piccolo e monocentrico di pazienti cinesi senza dati di follow-up. Non possiamo escludere completamente fattori confondenti o altri meccanismi (come la tempesta citochinica sistemica). Serviranno studi più ampi, multi-etnici e longitudinali per confermare ed espandere questi risultati e per capire appieno le intricate vie attraverso cui il COVID-19 impatta il nostro cervello.
Ma il messaggio fondamentale è forte: le prove che SARS-CoV-2 abbia un certo grado di neurotropismo e che scateni processi neuroinfiammatori sono sempre più consistenti. Capire a fondo questi meccanismi è fondamentale, non solo per trattare le fasi acute, ma anche per affrontare le conseguenze a lungo termine, come il Long COVID.
Fonte: Springer
