Cortisone e COVID Critico: Polmoni a Rischio nel Lungo Periodo? La Mia Analisi di uno Studio Chiave
Ciao a tutti! Qui si parla di scienza, ma con un linguaggio che spero vi appassioni tanto quanto appassiona me. Ricordate i giorni bui della pandemia di COVID-19? Quando eravamo tutti appesi alle notizie, sperando in cure efficaci? Ecco, tra le armi che abbiamo imparato a usare contro le forme più gravi della malattia, i corticosteroidi (come il famoso desametasone) sono diventati rapidamente uno standard di cura. Hanno dimostrato di salvare vite riducendo l’infiammazione devastante che il virus scatenava nei polmoni. Una vera manna dal cielo in terapia intensiva.
Ma, come spesso accade in medicina, ogni intervento potente può avere anche un rovescio della medaglia, magari nascosto, che emerge solo a distanza di tempo. E la domanda che molti ricercatori (e io con loro, da inguaribile curioso!) si sono posti è: che impatto hanno avuto questi farmaci salvavita sulla funzione polmonare dei pazienti a lungo termine, una volta superata la fase critica?
Il Contesto: Cortisone, un’arma a doppio taglio?
Partiamo da un presupposto: uscire da una terapia intensiva dopo un COVID-19 critico, magari dopo essere stati ventilati, non è una passeggiata. Molti sopravvissuti riportano problemi persistenti, e i polmoni sono spesso tra gli organi più colpiti. Si parla di “postumi polmonari”, come una ridotta capacità di scambiare ossigeno e anidride carbonica (quella che tecnicamente chiamiamo capacità di diffusione del monossido di carbonio o DLCO).
I corticosteroidi agiscono proprio spegnendo l’incendio dell’infiammazione. Fondamentali nella fase acuta, quando il sistema immunitario impazzisce. Ma cosa succede dopo? Possono questi farmaci, così utili all’inizio, interferire con i processi di guarigione del tessuto polmonare o lasciare qualche strascico? Era proprio questo il dubbio che un interessante studio svedese, pubblicato su Springer, ha cercato di dirimere.
Lo Studio Svedese: Cosa Abbiamo Scoperto?
Immaginatevi un ospedale svedese, tra marzo 2020 e agosto 2021. I ricercatori hanno seguito un gruppo di pazienti che avevano combattuto una battaglia durissima contro il COVID-19 in terapia intensiva, tanto da aver bisogno di supporto ventilatorio (ossigeno ad alti flussi, ventilazione non invasiva o invasiva). Hanno poi rivisto questi sopravvissuti circa sei mesi dopo la dimissione dalla terapia intensiva.
L’obiettivo era confrontare due gruppi:
- Pazienti che avevano ricevuto corticosteroidi secondo il protocollo RECOVERY (6 mg di desametasone al giorno o dose equivalente, iniziati presto e continuati per almeno un giorno).
- Pazienti che, per varie ragioni (soprattutto perché ricoverati nella primissima fase della pandemia, prima che il cortisone diventasse standard), non avevano ricevuto questo trattamento.
Cosa hanno misurato? Principalmente due cose: la già citata funzione polmonare (specificamente la DLCO) e la qualità della vita percepita dai pazienti, usando un questionario validato chiamato RAND-36. Hanno tenuto conto di tanti fattori per rendere il confronto il più equo possibile: età, sesso, fumo, malattie preesistenti, durata della degenza in terapia intensiva, gravità all’ingresso (usando un punteggio chiamato SAPS 3) e tipo di ventilazione ricevuta.
Risultati Sorprendenti (ma non troppo): Funzione Polmonare e Qualità della Vita
E qui arriva la parte succosa. Cosa è emerso da questo confronto? Tenetevi forte: i pazienti che avevano ricevuto i corticosteroidi mostravano, a sei mesi di distanza, una capacità di diffusione polmonare (DLCO) mediamente inferiore rispetto a quelli che non li avevano presi. La differenza era statisticamente significativa (circa l’8% in meno).
Attenzione però, prima di saltare a conclusioni affrettate. I ricercatori stessi sottolineano che, sebbene statisticamente rilevante, questa differenza non raggiungeva la soglia del 10% che di solito viene considerata “clinicamente significativa”. Insomma, un segnale c’è, ma forse non così impattante nella pratica.

Ma l’aspetto forse ancora più interessante riguarda la qualità della vita. Nonostante quella leggera differenza nella funzione polmonare misurata, quando si andava a chiedere ai pazienti come si sentivano, come percepivano la loro salute fisica ed emotiva, le loro attività quotidiane… beh, non c’erano differenze significative tra i due gruppi! Chi aveva preso il cortisone non riportava una qualità di vita peggiore rispetto a chi non l’aveva preso.
Perché questa differenza? Ipotesi e Complessità
Come mai questa apparente discrepanza? I ricercatori avanzano alcune ipotesi.
- Gravità iniziale diversa? Il gruppo che non ha ricevuto cortisone era composto da pazienti della prima ondata, che forse (come suggerito dai punteggi SAPS 3 più bassi e dalla degenza in TI più breve) erano leggermente meno gravi all’ingresso, e questo potrebbe aver favorito un recupero polmonare migliore a prescindere dal cortisone. Il gruppo trattato con cortisone, invece, aveva una degenza in TI più lunga, il che potrebbe anche essere legato a un rischio maggiore di complicanze come le polmoniti associate alla ventilazione (VAP), che a loro volta possono peggiorare l’outcome polmonare.
- Effetti collaterali diretti? Si ipotizza che i corticosteroidi possano, in alcuni casi, rallentare l’eliminazione del virus o favorire infezioni secondarie, anche se di solito vengono somministrati quando la replicazione virale è già in calo.
- La DLCO non è tutto? Forse quella riduzione misurata della DLCO non era sufficiente a impattare significativamente sulla vita quotidiana delle persone, che magari non mettono costantemente sotto sforzo massimo i loro polmoni.
- Altri fattori dominanti? È possibile che nel recupero post-COVID critico contino moltissimo altri aspetti, come problemi neuropsichiatrici (memoria, concentrazione), ansia, depressione, debolezza muscolare, che potrebbero “mascherare” l’effetto di una lieve riduzione della funzione polmonare sulla qualità di vita percepita.
Ovviamente, lo studio ha i suoi limiti, come ammettono gli stessi autori. È osservazionale (non si può stabilire un rapporto causa-effetto certo), è di un singolo centro, non si hanno dati sulla funzione polmonare pre-COVID (chi può dire se ci fossero già problemi?), non si è potuto tener conto delle diverse varianti virali. Insomma, la cautela è d’obbligo.
Cosa Significa per Noi? Riflessioni Finali
Allora, che messaggio ci portiamo a casa da questa immersione nella ricerca? Primo: i corticosteroidi sono stati e restano fondamentali nel trattamento del COVID-19 critico per ridurre la mortalità a breve termine. Su questo non ci piove. Secondo: questo studio solleva un sopracciglio, suggerendo che potrebbe esserci un piccolo prezzo da pagare in termini di funzione polmonare a lungo termine, anche se l’impatto sulla qualità della vita percepita sembra minimo o nullo.
È un classico esempio di come la medicina sia un continuo bilanciamento tra benefici e potenziali rischi, soprattutto quando si affrontano malattie nuove e complesse. Il segnale sulla DLCO merita sicuramente attenzione e ulteriori indagini. Serviranno studi più ampi, magari multicentrici e con follow-up ancora più lunghi, per confermare o smentire questi risultati e capire meglio i meccanismi sottostanti.
Nel frattempo, questo lavoro ci ricorda l’importanza del monitoraggio a lungo termine dei sopravvissuti a forme gravi di COVID-19 e la necessità di continuare a studiare per ottimizzare le strategie terapeutiche, non solo per salvare vite nell’immediato, ma anche per garantire la migliore qualità di vita possibile dopo. La scienza non si ferma mai, ed è questo il suo bello!
Fonte: Springer
