Compravendita di Esami e Tesi: Reato o Crisi di Integrità? Il Dilemma Australiano che Ci Riguarda Tutti
Ragazzi, parliamoci chiaro. Avete mai sentito parlare di “contract cheating”? No, non è l’ultimo thriller legale, ma un fenomeno che sta facendo tremare le fondamenta del mondo accademico, non solo in Australia ma potenzialmente ovunque. Si tratta, in soldoni, di studenti che pagano (o a volte nemmeno quello) qualcun altro – amici, parenti, o vere e proprie “fabbriche di tesi” online – per farsi fare compiti, esami o addirittura la tesi di laurea. Un bel problema, vero? Ma la domanda che mi ronza in testa, e che è al centro di un acceso dibattito anche laggiù in Australia, è: stiamo parlando di un semplice “imbroglio”, una mancanza di integrità individuale dello studente, oppure siamo di fronte a qualcosa di più grosso, una vera e propria crisi sistemica che coinvolge l’istruzione superiore e persino la giustizia penale? È un crimine o “solo” una scorrettezza?
Cos’è esattamente il Contract Cheating (e perché è difficile definirlo)
Definire il contract cheating non è semplice come sembra. Come dicevo, non serve per forza che ci sia un pagamento. Può includere l’uso di “essay mills” (siti che sfornano elaborati su commissione), lo scambio di compiti tra pari, servizi di scrittura personalizzati… insomma, un bel calderone. E poi, scovarlo è difficilissimo per prof e università. Proprio per questa varietà di forme e la difficoltà nel rilevarlo, mettersi d’accordo su una definizione universale è un’impresa.
C’è un sacco di ricerca che ha cercato di capirne la diffusione, le cause, gli impatti. E questo ha portato a leggi diverse, policy interne alle università e strategie di prevenzione. Eppure, il problema rimane, subdolo e persistente, non solo per le università ma ora anche per i sistemi giudiziari. E qui, secondo me, sta il punto: forse non riusciamo a sconfiggerlo perché non siamo nemmeno d’accordo su *cosa* sia veramente il problema e come affrontarlo.
Quantificare il fenomeno è un altro bel rompicapo. Sappiamo che siti e servizi per “comprare” compiti sono sempre più accessibili, ma non possiamo dire con certezza “più accesso = più imbrogli”. Le stime variano tantissimo. Quello che è certo è che la discussione si è spostata: non è più solo una questione accademica, ma è entrata prepotentemente nell’arena della giustizia penale, soprattutto in Australia.
La Svolta Australiana: Quando l’Imbroglio Diventa Reato
In Australia, dal 2020, fornire servizi di contract cheating è diventato un reato penale. Attenzione: fornire, non comprare. La legge (il Tertiary Education Quality and Standards Agency Amendment (Prohibiting Academic Cheating Services) Act 2020) mira a colpire chi offre questi servizi, che siano aziende o singoli individui, a scopo commerciale o meno. Le pene? Multe salate e fino a due anni di carcere. Mica uno scherzo.
L’Australia non è sola. Anche Nuova Zelanda e Irlanda hanno leggi simili, e pure nel Regno Unito si sta discutendo una proposta di legge in tal senso (a metà 2024 era in seconda lettura). L’idea di fondo è che questi comportamenti vanno condannati e servono sanzioni chiare. Curiosamente, nel dibattito britannico è emersa la necessità di una legge specifica, perché usare le leggi esistenti sulla frode sarebbe troppo macchinoso e lento. Immaginatevi le università che chiamano la polizia per uno studente che ha copiato… prima che si arrivi a una conclusione, lo studente si è già laureato!

Nonostante queste leggi severe, l’applicazione pratica solleva qualche dubbio. In Nuova Zelanda, la legge è stata usata solo una volta nel 2014, e il caso non è nemmeno arrivato a conclusione. In Australia, dal 2020 sono stati bloccati quasi 370 siti web di terze parti, ma nessuno ha ricevuto multe o altre sanzioni. Sembra quasi che l’importante sia *avere* la legge, più che applicarla fino in fondo.
Il focus, come detto, è sui venditori, per proteggere il valore delle lauree. Ma nel Regno Unito si sta discutendo se includere anche gli studenti delle superiori, amici e parenti che aiutano, equiparandoli ai venditori. Chissà se arriveranno a tanto. Sarebbe un cambio di passo notevole, che solleva domande sul perché di questa escalation e cosa si spera di ottenere.
I Limiti della Criminalizzazione: Funziona Davvero?
Ci sono dei punti deboli in queste leggi. Richiedono che il servizio sia pubblicizzato *come* servizio per imbrogliare. Ma se un sito si presenta come “supporto compiti”, “tutoraggio” o “condivisione file tra pari”? Applicare la legge diventa difficile. E con l’arrivo di strumenti di IA generativa come ChatGPT, la faccenda si complica ulteriormente.
Un altro svantaggio è che, se la questione passa al penale, la governance dell’integrità accademica si sposta dalle università ai tribunali. Questo significa processi lenti e costosi, il rischio di “allargare la rete” (net-widening) e criminalizzare comportamenti che forse potrebbero (e dovrebbero) essere gestiti diversamente.
Insomma, la preoccupazione per il contract cheating è passata dall’università al sistema giudiziario. Ma noi criminologi (sì, mi ci metto in mezzo perché questo tema mi appassiona!) siamo stati un po’ troppo silenziosi. Dovremmo chiederci: queste strategie di prevenzione basate sulla punizione sono davvero appropriate nel contesto universitario? Quali sono i limiti della criminalizzazione?
Usare la Lente della Criminologia: Cosa C’è Davvero Sotto?
Per capire meglio, possiamo usare un approccio analitico chiamato WPR (“What’s the Problem Represented to Be?”). Non si tratta di trovare la soluzione magica, ma di chiederci: come è stato “costruito” il problema del contract cheating in Australia? Quali presupposti ci sono dietro la legge? Cosa viene lasciato fuori dal discorso?
1. Come è stato rappresentato il problema?
Nel dibattito parlamentare australiano che ha portato alla legge del 2020, il contract cheating è stato dipinto come una minaccia emergente all’integrità accademica e alla reputazione internazionale dell’Australia nel settore dell’istruzione superiore. Si è parlato molto in termini economici: l’istruzione come importante export da proteggere (si parlava di 32 miliardi di dollari!). C’era la paura che laureati “non qualificati” potessero mettere a rischio la sicurezza pubblica (pensate a ingegneri o medici…). E si è data la colpa al cheating per un presunto declino della qualità dell’istruzione negli ultimi 20 anni. Questo “allarmismo” ha giustificato un approccio punitivo, con pene severe.
2. Quali presupposti c’erano dietro?
Qui le cose si fanno interessanti. Il dibattito è diventato un’arena per fare politica, soprattutto nel contesto incerto della pandemia COVID-19. Si è data la colpa alle università per una presunta mancanza di fondi, per essersi “svendute” agli studenti internazionali, e per l’erosione dei valori australiani come correttezza e integrità, a causa di presunte interferenze politiche straniere. C’è stato un forte sentimento anti-internazionale, quasi paradossale visto che si voleva proteggere l’export educativo. Gli studenti internazionali, in particolare, sono stati visti come più vulnerabili e propensi a usare questi servizi.

Si è evitato di colpevolizzare direttamente gli studenti nella legge, ma il dibattito li ha comunque messi sotto una luce sospetta. Perché? Forse perché ammettere le vere cause del cheating (stress, difficoltà economiche, bisogno di lavorare, mancanza di supporto) avrebbe significato puntare il dito contro il governo stesso e le sue politiche sull’istruzione superiore. Alcuni politici, in realtà, hanno provato a dirlo: non sono studenti pigri, ma spesso sono sotto pressione per motivi finanziari o legati al visto.
I fornitori di servizi, invece, sono stati descritti come “imprese criminali organizzate”, predatori che sfruttano studenti vulnerabili, arrivando persino al ricatto. Un linguaggio tipico della retorica “tough on crime”. C’era anche un tono paternalistico, come se gli studenti (soprattutto stranieri) fossero incapaci di distinguere il bene dal male. In pratica, il problema è stato costruito come qualcosa che viene da “fuori”, dall'”altro”, un classico “capro espiatorio” (o “folk devil”, come diciamo noi criminologi). Questo ha permesso ai governi di presentarsi come la soluzione (attraverso la criminalizzazione), deresponsabilizzandosi dalle cause.
3. Come si è arrivati a questa rappresentazione?
Lo scandalo “MyMaster” del 2015 in Australia ha sicuramente giocato un ruolo chiave. Ha coinvolto circa 1000 studenti (molti internazionali cinesi) di università del New South Wales, cristallizzando le preoccupazioni del governo sull’integrità dell’HE. I media hanno dato ampio risalto, alimentando un sentimento di sfiducia verso le università, accusate di chiudere un occhio per mantenere i finanziamenti dal mercato internazionale. Questo scandalo ha anche stimolato la ricerca accademica sul tema, che a sua volta ha informato il dibattito politico.
4. Cosa viene lasciato fuori? Dove sono i silenzi?
Tante cose. Innanzitutto, la criminalizzazione dei fornitori non affronta il *perché* gli studenti cercano questi servizi. È una soluzione reattiva, un “cerotto” che ignora le cause profonde e limita il supporto disponibile. Non previene il problema alla radice. Inoltre, molte di queste “fabbriche di tesi” sono all’estero, fuori dalla portata della legge australiana.
Quindi, cosa manca? Manca una discussione seria sulle cause:
- Lo stress degli studenti (nel 2019, il 46% pensava di lasciare l’uni per stress).
- La necessità di lavorare (27%).
- Difficoltà finanziarie (23%).
- Mancanza di supporto accademico (19%).
Queste sono le stesse ragioni che spingono al cheating! Dal punto di vista criminologico, possiamo vederle come scelte razionali (per superare un ostacolo) o come risultato di una forte pressione (strain theory).
E poi ci sono i problemi strutturali del sistema universitario australiano (ma non solo, temo):
- Precariato del personale accademico (casualisation).
- Scandali per mancato pagamento di stipendi (wage theft).
- Accordi sindacali svantaggiosi.
- Riutilizzo di materiale didattico obsoleto.
- Tagli al personale.
Tutto questo impatta sulla qualità dell’insegnamento e sulla capacità del personale di seguire da vicino gli studenti, individuare il cheating e, soprattutto, prevenirlo con una didattica migliore e relazioni più strette. Manca una vera discussione pedagogica in questi dibattiti legislativi.

Esistono approcci alternativi, come il programma “Courageous Conversations” dell’Università del New South Wales, che usa la giustizia riparativa: chi ammette l’errore evita le sanzioni più dure (come l’espulsione) ma deve impegnarsi in percorsi di supporto per non ricaderci. Ma queste iniziative restano spesso sconosciute al grande pubblico.
5. Quali sono gli effetti di questa rappresentazione?
Il rischio più grosso è l’etichettamento (labelling). Identificando e punendo i “devianti” (i fornitori), si crea confusione su cosa sia accettabile e cosa no, si genera stigma e si oscura il valore preventivo di approcci più educativi. Si crea una spaccatura tra governo e università, con il primo che cerca di controllare il secondo senza capirne a fondo le dinamiche.
Inoltre, colpire solo i fornitori non scoraggia la domanda. Anzi, una ricerca su oltre 7000 studenti suggerisce che l’azione penale contro i fornitori ha “scarso effetto deterrente sui comportamenti di outsourcing degli studenti”. Non sto dicendo che dobbiamo punire gli studenti o i genitori, ma che le risposte devono affrontare le cause e avvenire nel contesto giusto (l’università, non il tribunale) per avere un valore educativo e deterrente.
6. Come è stata diffusa e difesa questa rappresentazione (e come si potrebbe cambiarla)?
Oltre al dibattito parlamentare, questa visione del problema è stata rafforzata da:
- TEQSA (l’ente regolatore australiano): Sul suo sito offre molti strumenti utili per le università e gli studenti, ma tende a focalizzarsi su cosa possono fare loro a livello individuale o istituzionale, tralasciando i fattori sociali, strutturali e politici più ampi.
- Media: Molti articoli hanno ripreso la retorica “tough on crime”, anche se alcuni hanno iniziato a esplorare le cause più profonde.
- Social Media: Sono un’arma a doppio taglio. Gli studenti possono essere esposti alla pubblicità di questi servizi (spesso mascherati da “aiuto compiti”) e accedervi facilmente. C’è persino il fenomeno degli influencer pagati per promuovere questi siti! E poi ci sono gli algoritmi che bombardano di pubblicità mirata gli studenti che cercano parole come “essay” o “help”.
Come cambiare rotta? Servirebbe una campagna mediatica più aperta e critica, che coinvolga tutte le voci (studenti inclusi!) e discuta apertamente delle cause. Bisogna usare i social media in modo strategico per contrastare la pubblicità ingannevole e promuovere l’integrità.
Il Ruolo (Mancato?) della Criminologia e la Via da Seguire
Noi criminologi, come dicevo, siamo stati un po’ ai margini di questo dibattito, forse perché dominato dalla pedagogia. Ma abbiamo molto da offrire! Possiamo analizzare le cause della devianza (il cheating), valutare l’efficacia delle strategie di prevenzione (spesso le politiche di integrità accademica sono insufficienti), e sottolineare che serve investire sulla qualità dell’insegnamento, sul personale, su un design dei corsi e delle valutazioni che renda il cheating più difficile e meno attraente.
Gli studenti stessi spesso percepiscono che le università non fanno abbastanza per scovare e gestire il cheating. Rispondere con moduli online sull’integrità accademica da completare dopo essere stati scoperti serve a poco. Serve rafforzare un atteggiamento positivo verso l’integrità, magari integrandola nel curriculum, non come una formalità burocratica, ma come parte essenziale dell’apprendimento.
E poi, diciamocelo, le politiche universitarie sono spesso percepite dagli studenti come punitive, legalistiche e stressanti. Paradossalmente, con l’arrivo di ChatGPT, molte università stanno ammorbidendo le policy per integrare queste tecnologie, mostrando che un discorso più innovativo è possibile.
Infine, non possiamo ignorare le questioni sistemiche: l’equità nell’accesso all’istruzione, il divario tra le possibilità economiche degli studenti e le pressioni esterne per avere successo. Bisogna affrontare il costo della vita, le opportunità di lavoro, l’accessibilità degli alloggi. Serve più supporto finanziario e sociale, specialmente per gli studenti più svantaggiati. E le università devono farsi sentire contro politiche governative miopi, come l’aumento delle tasse per certi corsi o i tetti agli studenti internazionali.
Allora, Crimine o Crisi di Integrità?
Torniamo alla domanda iniziale. Il contract cheating è entrambe le cose. È un crimine in alcune giurisdizioni, ed è senza dubbio una grave mancanza di integrità. Ma il modo in cui il problema viene *rappresentato* – prevalentemente come un crimine da punire, grazie alla politica e alla creazione di “capri espiatori” – sta plasmando le risposte in un modo che, secondo me, è limitante.
Usare la lente della WPR ci fa capire la complessità del fenomeno e come le attuali leggi, pur mirando a risolvere un problema, ne creino altri o lascino irrisolti quelli fondamentali. C’è una contraddizione: si criminalizzano i fornitori, ma si ignorano le cause che spingono gli studenti a cercarli.
Serve un approccio più olistico, interdisciplinare, che metta insieme pedagogia e criminologia. Dobbiamo guardare al contract cheating con una lente di “prevenzione del crimine educativa”, interrogandoci sulle cause, allocando risorse per il supporto, e cercando di ridurre la *domanda* di questi servizi illeciti, invece di aspettare che il danno sia fatto. Solo così, forse, potremo affrontare questa sfida in modo davvero efficace, per il bene degli studenti e dell’intero sistema educativo.
Fonte: Springer
