Pronto Soccorso: Ma Quando è Davvero Necessario Andarci? Uno Studio Irlandese Svela il Dilemma
Quante volte abbiamo sentito parlare, o magari vissuto sulla nostra pelle, l’esperienza di Pronto Soccorso (PS) sovraffollati, con attese infinite e personale sanitario sotto pressione? È un problema che affligge molti sistemi sanitari, compreso il nostro. Ma vi siete mai chiesti quanti di quegli accessi siano davvero “appropriati”? E, soprattutto, chi decide cosa è appropriato e cosa no?
Recentemente mi sono imbattuto in uno studio irlandese molto interessante, pubblicato su Springer, che ha cercato di fare luce proprio su questo punto: esiste un consenso tra i diversi professionisti sanitari su quali visite al Pronto Soccorso siano realmente necessarie e quali, invece, potrebbero essere gestite altrove, magari dal medico di base? Vi anticipo già che i risultati sono piuttosto sorprendenti e fanno riflettere.
Ma come hanno fatto? Lo studio irlandese nel dettaglio
Immaginatevi la scena: un Pronto Soccorso urbano in Irlanda. I ricercatori hanno preso in esame i dati anonimi di 77 pazienti adulti che si sono presentati al PS nell’arco di 24 ore. Questi “casi” sono stati poi sottoposti al giudizio di cinque figure professionali chiave:
- Un consulente di medicina d’urgenza (EMC)
- Uno specialista in formazione avanzata in medicina d’urgenza (EM SpR)
- Un infermiere coordinatore clinico del PS (CMN)
- Un paramedico avanzato (AP)
- Un medico di medicina generale (GP – il nostro medico di base, per intenderci)
Insomma, un bel mix di professionisti che lavorano sia dentro che fuori dall’ospedale, in prima linea nell’emergenza-urgenza. L’idea era proprio capire se chi lavora sul territorio (come il paramedico o il medico di base) avesse una visione diversa rispetto a chi opera tra le mura del PS.
Le domande chiave: Appropriato o no?
A questi cinque esperti sono state poste domande molto dirette per ogni caso:
- Il paziente avrebbe potuto essere gestito dal medico di base entro le successive 24-48 ore?
- Questa visita al PS rappresenta un uso inappropriato delle risorse del Pronto Soccorso?
- Su una scala da 0 a 10, quanto ritieni appropriata questa visita al PS? (Dove 0-3 era “inappropriato”, 4-6 “né appropriato né inappropriato”, e 7-10 “appropriato”).
L’obiettivo era chiaro: vedere se questi professionisti, pur con background diversi, arrivassero a conclusioni simili.
I risultati? Sorprendenti (e un po’ preoccupanti)
E qui arriva il bello. Sebbene tutti concordassero sul fatto che *esistono* accessi inappropriati al PS, mettersi d’accordo su *quali* fossero questi accessi si è rivelato un’impresa ardua.
Vediamo qualche dato:
- Gestione dal Medico di Base: C’è stato un consenso solo nel 56% dei casi sul fatto che il paziente potesse essere visto dal medico di base entro 24-48 ore. Le percentuali variavano dal 30% (secondo l’infermiere coordinatore) al 40% (secondo il consulente di medicina d’urgenza). Curiosamente, i due medici d’urgenza (consulente e specializzando) erano quelli che ritenevano più pazienti gestibili a livello di cure primarie. Forse perché, abituati a gestire emergenze gravi, tendono a vedere come meno urgenti i casi di bassa complessità?
- Uso Inappropriato delle Risorse: Qui il consenso scende leggermente al 58%, ma con un divario ancora più ampio! Il medico di base riteneva inappropriato solo il 12% degli accessi, mentre il consulente di medicina d’urgenza saliva al 35%. Una differenza notevole, che forse riflette la diversa prospettiva e la consapevolezza delle reciproche limitazioni: il medico di base potrebbe inviare al PS per mancanza di alternative sul territorio, mentre il medico del PS sa che per certi pazienti l’accesso non accelera diagnosi o trattamenti.
- Scala di Appropriatezza (0-10): Su questo punto, l’accordo è stato definito “scarso” (il valore statistico Kappa era molto basso, 0.113). Quando poi i punteggi sono stati raggruppati nelle tre categorie (inappropriato, neutro, appropriato), le differenze sono esplose. Pensate che l’infermiere coordinatore ha classificato come “inappropriato” solo l’1% degli accessi, mentre lo specializzando in medicina d’urgenza ben il 21%! Allo stesso modo, l’infermiere vedeva come “appropriati” il 78% degli accessi, contro solo il 47% dello specializzando. E stiamo parlando di professionisti che lavorano fianco a fianco nello stesso ambiente!
Perché tutta questa confusione tra esperti?
Lo studio suggerisce diverse ragioni per questa mancanza di consenso. Sicuramente, il background formativo e l’esperienza quotidiana giocano un ruolo fondamentale nel plasmare la percezione di “urgenza” e “appropriatezza”. Chi è abituato a gestire infarti e traumi maggiori avrà una soglia diversa rispetto a chi si occupa prevalentemente di cure primarie.
Inoltre, emerge un possibile problema di comunicazione e di comprensione reciproca tra chi lavora sul territorio e chi lavora in ospedale. Forse non c’è abbastanza consapevolezza delle risorse e dei limiti di ciascun servizio. Il medico di base potrebbe non avere accesso a percorsi alternativi rapidi, vedendo il PS come unica soluzione, mentre il medico d’urgenza potrebbe percepire quell’accesso come un intasamento inutile per un problema non realmente emergente.
Studi precedenti, sia in Irlanda che in Nuova Zelanda, avevano già evidenziato questa difficoltà nel trovare un accordo univoco tra il personale sanitario.
Cosa significa tutto questo per noi pazienti?
La conclusione dello studio è piuttosto diretta e fa riflettere: se nemmeno i professionisti sanitari, con tutta la loro conoscenza del sistema, riescono a mettersi d’accordo su cosa sia un accesso “appropriato” al Pronto Soccorso, come possiamo pretendere che noi cittadini, senza quella preparazione specifica, siamo in grado di autovalutare correttamente la gravità della nostra situazione e scegliere il servizio più adatto?
Questo mette un po’ in crisi l’idea, pur lodevole, di piani come lo “Slaintecare” irlandese (ma potremmo pensare a iniziative simili anche qui da noi) che puntano a spostare l’assistenza dall’ospedale al territorio, promuovendo il concetto di “cura giusta, nel posto giusto, al momento giusto, dal team giusto”. È un obiettivo sacrosanto, ma difficile da raggiungere se manca una definizione condivisa di cosa sia “giusto” e “appropriato”, soprattutto per quanto riguarda l’accesso al PS.
Le aspettative sulla capacità dei pazienti di “autodiagnosticarsi” e decidere se andare o meno al PS potrebbero non essere realistiche, almeno non senza un supporto e un’informazione molto più chiari e, soprattutto, senza alternative concrete e accessibili sul territorio.
Certo, lo studio ha i suoi limiti: è stato condotto in un solo ospedale, in un periodo di 24 ore, durante la pandemia COVID-19 (che potrebbe aver influenzato i risultati), e con un solo rappresentante per ogni specialità. Tuttavia, il messaggio che lancia è forte.
Serve più dialogo e comunicazione tra cure primarie e servizi d’emergenza. Forse un feedback più strutturato dai PS ai medici di base su cosa il Pronto Soccorso può e non può fare potrebbe aiutare. E bisognerebbe indagare anche su altri fattori, come l’uso “improprio” del PS da parte di altri reparti ospedalieri per accelerare esami o procedure.
In conclusione, questo studio irlandese ci ricorda che la questione degli accessi “inappropriati” al Pronto Soccorso è complessa e non può essere liquidata semplicemente dicendo ai pazienti di “non andare al PS se non è urgente”. Se gli stessi esperti faticano a trovare un accordo, forse il problema risiede più nel sistema e nella mancanza di alternative chiare e percorribili, piuttosto che nella scarsa capacità di giudizio dei cittadini. Senza interventi strutturali, è probabile che i nostri Pronto Soccorso continueranno ad essere sotto pressione.
Fonte: Springer