Condivisione Dati nella Ricerca Educativa: Amore a Prima Vista, Ma Pochi Matrimoni?
Parliamoci chiaro: nel mondo della ricerca, specialmente quella finanziata con fondi pubblici, l’idea di condividere i dati sta diventando quasi un mantra. Sentiamo dire ovunque che è la strada giusta, che apre nuove porte, che accelera la scienza. Eppure, quando vado a vedere cosa succede davvero nel mio campo, quello delle scienze dell’educazione, mi accorgo che la pratica è molto, molto meno diffusa di quanto le belle parole lascerebbero intendere. È un po’ come se tutti amassero l’idea dell’amore eterno, ma poi pochi si sposassero davvero.
Mi sono imbattuto in uno studio recente che ha cercato di capire meglio questa strana situazione. Hanno chiesto a un po’ di colleghi ricercatori nel campo dell’educazione cosa ne pensassero della condivisione dei dati e quali fossero, secondo loro, gli ostacoli principali. I risultati? Beh, confermano questa sensazione di “vorrei ma non posso”, o forse “vorrei ma non so come/non mi fido”.
Tutti (o quasi) d’accordo: Condividere è Bello!
La prima cosa che salta all’occhio è che, in linea di massima, i ricercatori in educazione vedono di buon occhio la condivisione dei dati. Immaginatevi: quasi il 97% degli intervistati ha detto che “la condivisione dei dati fa bene alla scienza”. Non male, vero? E non finisce qui:
- Circa il 70% pensa che condividere i dati possa aumentare le citazioni ricevute (e chi non vorrebbe più citazioni?).
- Una percentuale simile (69%) crede che sia positivo per la propria carriera.
Quindi, sulla carta, l’entusiasmo c’è. Sembra che la maggior parte di noi riconosca i benefici, sia per la comunità scientifica in generale sia per il proprio percorso professionale. Ma allora, dov’è l’inghippo? Perché se siamo così convinti dei vantaggi, poi all’atto pratico siamo così restii?

Le Barriere Invisibili (ma Pesanti) alla Condivisione
Ed ecco che arriviamo al nocciolo della questione: le barriere. Lo studio ha messo in luce una serie di preoccupazioni e ostacoli che, evidentemente, frenano molti di noi. Quali sono i “fantasmi” più comuni che aleggiano sulla condivisione dei dati?
- Paura dell’interpretazione errata: Questa è una delle preoccupazioni maggiori. Il 65% teme che qualcun altro, riutilizzando i dati, possa arrivare a conclusioni sbagliate o travisare il significato originale. Comprensibile, specialmente quando si lavora con dati complessi o raccolti in contesti delicati come le scuole.
- Problemi con l’IRB (Comitato Etico): Ben il 57% si preoccupa che il proprio comitato etico possa avere da ridire sulla condivisione dei dati. La burocrazia e le questioni etiche, soprattutto quando si tratta di minori (cosa frequentissima nella ricerca educativa), sono un bel grattacapo.
- Tempo e Costi: Condividere dati non è un’operazione a costo zero. Richiede tempo per preparare i dataset, anonimizzarli, documentarli… e il tempo, si sa, è denaro (o comunque una risorsa scarsissima per i ricercatori). Il 57% lo percepisce come un processo lungo e costoso.
- Dubbi su “Dove” e “Come”: Quasi la metà (49%) ammette di non sapere bene dove depositare i dati. La mancanza di conoscenza pratica e di infrastrutture chiare è un ostacolo concreto.
- Riservatezza dei Partecipanti: Collegato al punto sull’IRB, il 38% è preoccupato per la possibilità che i partecipanti possano essere re-identificati. Questa percentuale è significativamente più alta rispetto ad altri campi, probabilmente per la natura sensibile dei dati educativi (spesso riguardanti bambini e ragazzi).
- Altre Preoccupazioni: Non mancano timori più “classici” come quello che qualcun altro pubblichi prima i risultati chiave (42%), la paura che vengano scoperti errori nei propri dati (31%), o una certa riluttanza a condividere “il frutto del proprio duro lavoro” (22%).
Insomma, il quadro delle barriere è piuttosto variegato e tocca aspetti pratici, etici, tecnici e persino psicologici.
L’Esperienza Fa la Differenza (Eccome!)
Qui arriva un dato davvero interessante. Lo studio ha confrontato le percezioni dei ricercatori dividendoli in tre gruppi: quelli che non avevano mai condiviso dati, quelli che li avevano condivisi solo con collaboratori diretti e quelli che li avevano depositati in un repository pubblico.
Ebbene, indovinate un po’? Chi aveva già esperienza di condivisione in un repository (la forma più “aperta” di condivisione) vedeva molte di queste barriere come meno insormontabili rispetto agli altri due gruppi. Ad esempio, la preoccupazione per i problemi con l’IRB o per la possibile interpretazione errata era significativamente più bassa in questo gruppo.

Questo suggerisce una cosa importante: forse molte paure sono legate alla mancanza di familiarità con il processo. Una volta che si “rompe il ghiaccio” e si impara come fare, magari seguendo delle guide o usando le risorse giuste, molti ostacoli sembrano ridimensionarsi. È come imparare ad andare in bicicletta: all’inizio sembra impossibile, poi diventa quasi naturale.
La teoria del comportamento pianificato (Ajzen, 1985), citata nello studio, ci dice proprio questo: la nostra percezione di controllo su un comportamento (quanto ci sentiamo capaci di farlo) influenza la nostra intenzione e la nostra azione. Chi ha già condiviso dati in un repository, probabilmente si sente più sicuro e competente nel gestire il processo.
Cosa Fare? Superare gli Ostacoli con le Risorse Giuste
Se da un lato è chiaro che le intenzioni positive ci sono, dall’altro è evidente che bisogna lavorare per abbattere queste barriere. Lo studio stesso menziona alcune risorse e tecniche che possono aiutare:
- De-identificazione dei dati: Esistono metodi per rendere i dati anonimi senza perdere troppa informazione utile (es. arrotondare valori continui, scambiare dati, aggiungere “rumore” controllato).
- Repository di dati: Ce ne sono di generali (come OSF, Figshare) e di specifici per dominio (come LDbase per dati su apprendimento e sviluppo, o Databrary per video/audio). Conoscere queste opzioni è il primo passo. Spesso i bibliotecari universitari possono dare una mano a scegliere quello giusto.
- Documentazione chiara (Metadati): Per evitare interpretazioni errate, è fondamentale accompagnare i dati con descrizioni dettagliate del campione, dei metodi, delle misure usate, dei codebook, ecc. Più informazioni forniamo, meno rischi ci sono.
Certo, lo studio ha i suoi limiti: il campione non era enorme e forse un po’ “sbilanciato” verso ricercatori già sensibili all’open science. Inoltre, è uno studio correlazionale, quindi non possiamo dire con certezza che l’esperienza *causi* una riduzione delle barriere percepite (potrebbe essere che chi ha meno paure di partenza sia più propenso a condividere).

Verso un Futuro di Maggiore Condivisione?
Nonostante le sfide, il vento sembra soffiare nella direzione di una maggiore apertura. Le politiche dei finanziatori (come NIH e IES negli USA) stanno diventando sempre più stringenti, rendendo la condivisione non più un optional, ma un requisito.
Questo significa che, volenti o nolenti, dovremo tutti fare i conti con questa pratica. La buona notizia è che non siamo soli. Esistono risorse, guide e, soprattutto, l’esperienza dei colleghi che hanno già iniziato a condividere può essere preziosa.
Forse, il passaggio chiave è proprio questo: trasformare la convinzione diffusa che “condividere è giusto” in una pratica concreta, supportata da conoscenze, strumenti e, perché no, un po’ più di fiducia reciproca. È una sfida, certo, ma necessaria se vogliamo che la ricerca educativa faccia davvero passi avanti, massimizzando l’impatto degli investimenti (spesso pubblici) che la sostengono. Il “matrimonio” tra ricerca educativa e condivisione dei dati forse non è ancora stato celebrato su larga scala, ma le premesse per un’unione felice ci sono tutte. Basta superare un po’ di “paura del grande passo”.
Fonte: Springer
