Fotografia concettuale wide-angle che mostra due profili umani stilizzati, composti da parole in lingue diverse, che si fronteggiano su uno sfondo astratto che evoca mappe culturali sovrapposte, obiettivo 20mm, lunga esposizione con leggero effetto mosso per dinamismo, focus nitido sulle parole chiave centrali.

Non Accordo, Ma Comprensione: Viaggio tra Davidson, Viveiros de Castro e l’Esperienza Vissuta nel Dissenso Linguistico

Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi in un viaggio affascinante nel cuore della comunicazione, o meglio, della sua apparente impossibilità. Parliamo di quando persone che parlano lingue diverse, o che appartengono a culture profondamente differenti, sembrano non capirsi affatto. È solo una questione di parole diverse? O c’è qualcosa di più profondo?

La definizione classica parla di “dissenso interlinguistico” come qualcosa che nasce “puramente a causa della differenza delle norme linguistiche”. Ma, onestamente, possiamo davvero separare così nettamente il significato delle parole (la semantica) da come le usiamo nel mondo reale, nelle nostre interazioni sociali (la pragmatica)? Io credo di no. Il linguaggio è vivo, è una pratica sociale, non un codice astratto. E se è così, allora il “dissenso interlinguistico” apre un vaso di Pandora di domande filosofiche che vanno ben oltre la teoria semantica.

Quando ci scontriamo con le difficoltà dell’interpretazione tra lingue e culture diverse, tocchiamo con mano i limiti della nostra capacità di comprendere l’altro. È un’occasione preziosa per riflettere sui nostri stessi presupposti, su quegli occhiali invisibili che indossiamo quando cerchiamo di dare un senso al mondo e agli altri. Affrontare queste sfide ci aiuta a capire la complessità dell’interpretazione in generale e, si spera, a trovare modi più sfumati, produttivi e rispettosi per confrontarci con la differenza.

Il Fantasma del Relativismo Concettuale

Qui entra in gioco il cosiddetto relativismo concettuale. L’idea, in soldoni, è che la verità non sia unica e universale, ma dipenda dal contesto culturale: norme, valori, credenze, pratiche. Questo mette in crisi l’idea di un realismo metafisico “duro e puro”, quello che pensa ci sia una sola verità là fuori, accessibile a tutti tramite osservazione e ragione. Se la verità è relativa, come possiamo fidarci di ciò che ci viene detto da qualcuno di un’altra cultura? Come valutiamo le prove? E non rischia il relativismo stesso di diventare incoerente quando proviamo a interpretare davvero?

A complicare ulteriormente le cose, c’è la questione del potere. Chi ha il potere di plasmare il discorso, spesso impone il proprio modo di vedere le cose, influenzando come interpretiamo le differenze culturali. Non siamo tutti sullo stesso piano quando si tratta di “fare significato”.

Ecco la sfida che mi pongo in questo articolo: trovare un modo per descrivere questa pluralità di pratiche interpretative, cariche di dinamiche di potere, senza però cadere nel relativismo concettuale. Voglio difendere il pluralismo interpretativo, ma rifiutare l’idea che siamo chiusi in “schemi concettuali” totalmente incommensurabili. Deve esserci un modo per mantenere aperto il dialogo significativo tra lingue e culture.

La mia proposta? Vedere la differenza interlinguistica come una differenza nell’esperienza vissuta, nel senso che la fenomenologia dà a questo termine. Un approccio che, spero, ci permetta di vedere l’interpretazione come un processo pragmatico il cui scopo è la comprensione (e non necessariamente l’accordo), superando i limiti di altre teorie e preservando un sano pluralismo.

Per arrivare a questa proposta, metterò a confronto due pesi massimi del pensiero su questi temi.

Portrait photography di un filosofo pensieroso, simile a Donald Davidson, che osserva attentamente un testo antico, obiettivo 35mm, stile film noir in bianco e nero, profondità di campo accentuata.

Davidson e la Scommessa sulla Comprensione

Il primo è il filosofo Donald Davidson. Ricordo una sua frase illuminante: “… minimizzare il disaccordo o massimizzare l’accordo è un ideale confuso. Lo scopo dell’interpretazione non è l’accordo ma la comprensione”. Davidson, nel suo famoso articolo del 1974, attaccò frontalmente l’idea degli “schemi concettuali” incommensurabili. Sosteneva che l’idea stessa di schemi così diversi da rendere impossibile la traduzione o l’interpretazione fosse, in fondo, incoerente.

Per Davidson, l’interpretazione non funziona tramite schemi che mediano tra noi e la realtà. Si basa su qualcosa di più diretto:

  • Il principio di carità: dobbiamo assumere che chi parla stia dicendo cose per lo più vere secondo le sue credenze.
  • Il realismo del senso comune: sia l’interprete che l’interlocutore hanno accesso a una realtà intersoggettivamente osservabile.

Usando questi strumenti, l’interprete può “triangolare” il significato delle parole dell’altro e raggiungere la comprensione. L’obiettivo è pragmatico, sociale. Gli errori ci sono, le piccole asimmetrie sono comuni, ma l’interpretazione, in linea di principio, è sempre possibile. Le differenze, anche quelle che sembrano enormi, sono “solo parole diverse”, non barriere insormontabili.

Bello, vero? Forse troppo. I critici (come Lynch o Taylor) hanno fatto notare che questa visione ottimistica fa fatica a spiegare i fallimenti sistematici della comprensione che vediamo nel mondo reale, proprio quelli causati da differenze linguistiche e culturali profonde. Sembra che la teoria di Davidson, pur rifiutando il relativismo, non riesca a rendere conto dell’asimmetria interpretativa, cioè del fatto che spesso partiamo da “cassette degli attrezzi” interpretative molto diverse, e questo crea problemi reali.

Viveiros de Castro e l’Equivocazione Controllata

Ed è qui che entra in scena il secondo protagonista: l’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro. Lui ci porta nel cuore dell’Amazzonia, tra cosmologie indigene radicalmente diverse dalle nostre. Viveiros de Castro è una figura chiave della cosiddetta “svolta ontologica” in antropologia, un movimento che prende sul serio le differenze tra collettivi umani, non come semplici “visioni del mondo” diverse, ma come veri e propri “mondi” o “ontologie” differenti.

Pensate al prospettivismo amerindio: l’idea che ogni creatura (umana e non) si veda come “umana” e veda le altre specie in modi specifici, legati alla propria prospettiva. I giaguari, ad esempio, potrebbero vedere il sangue umano come la loro “birra di manioca”. Non è una metafora, è un modo diverso di categorizzare e relazionare le entità del mondo. Qui c’è una sola “cultura” (la struttura delle relazioni), ma molte “nature” (gli enti che occupano i posti in quella struttura). È il contrario del nostro multiculturalismo (una natura, molte culture).

Come interpretare attraverso queste differenze radicali? Viveiros de Castro propone la “equivocazione controllata“. Non si tratta di cercare una traduzione perfetta, un termine nella nostra lingua che corrisponda esattamente a quello indigeno. Questo è impossibile, perché le categorie di base sono diverse. L’interpretazione diventa un esercizio di equivocazione: l’antropologo deve essere consapevole che, usando una parola, lui e il suo interlocutore potrebbero riferirsi a “cose” (o meglio, a reti di relazioni) molto diverse, anche se la parola sembra la stessa.

L’obiettivo non è eliminare l’equivocazione, ma esplorarla. È proprio nell’equivocazione che può emergere qualcosa di nuovo, di sorprendente. È un modo per prendere sul serio la differenza, per non ridurla alle nostre categorie familiari. C’è una forte valenza politica in questo: sfidare il dominio della metafisica occidentale, dare spazio a ontologie marginalizzate, immaginare modi diversi di stare al mondo – cosa quanto mai urgente, dice Viveiros de Castro, nell’epoca dell’Antropocene.

Fotografia wide-angle di una fitta foresta pluviale amazzonica vista da una canoa su un fiume calmo al tramonto, obiettivo 18mm, lunga esposizione per acqua liscia, colori saturi del cielo riflessi sull'acqua.

Tuttavia, anche l’approccio di Viveiros de Castro non è esente da critiche. Sembra flirtare pericolosamente con il relativismo e l’incommensurabilità che Davidson voleva evitare. Se i “mondi” sono così diversi, come è possibile anche solo l’equivocazione? Non si rischia di “esoticizzare” l’altro, chiudendolo in una differenza radicale che forse non corrisponde nemmeno alla sua esperienza vissuta? E come si concilia questa enfasi sulla differenza ontologica con la necessità di un’azione politica comune, ad esempio per le lotte indigene?

Tra Scilla e Cariddi: Incommensurabilità vs. Universalismo

Eccoci al dunque. Da un lato, Davidson ci offre una base per la possibilità della comprensione universale, ma sembra sottovalutare la realtà e la profondità delle differenze interpretative. Dall’altro, Viveiros de Castro prende sul serio queste differenze radicali, ma rischia di portarci verso un relativismo che rende problematica la comunicazione stessa e forse anche l’azione politica condivisa.

Sono davvero differenze “profonde” o “superficiali”? Forse la domanda è mal posta. Seguendo un approccio pragmatico, ispirato dallo stesso Davidson (“Lo scopo non è l’accordo ma la comprensione”), dovremmo chiederci: quali sono le implicazioni pratiche di ciascuna visione? Come ci aiutano (o non ci aiutano) ad affrontare le sfide reali dell’interpretazione interculturale e a promuovere un dialogo più plurale?

La questione chiave mi sembra quella della commensurabilità. Due schemi sono incommensurabili se non possono essere confrontati o valutati reciprocamente. Chiamiamo “profonde” le differenze che portano all’incommensurabilità, e “superficiali” quelle che non lo fanno. Davidson nega le differenze profonde, Viveiros de Castro sembra affermarle.

Io credo che entrambe le posizioni estreme siano problematiche. L’universalismo di Davidson non rende conto dell’esperienza vissuta dell’incomprensione e della fatica dell’interpretare. L’apparente relativismo di Viveiros de Castro, basato su “ontologie” o “mondi” separati, puzza un po’ di quel dualismo schema/contenuto che Davidson aveva criticato, e rischia di bloccare il dialogo invece di aprirlo. Se i mondi sono davvero incommensurabili, come può l’antropologo “equivocare” tra di essi? E come può questa prospettiva sostenere lotte politiche che richiedono alleanze e comprensione reciproca?

Serve una terza via. Una via che riconosca la realtà dell’asimmetria interpretativa e l’importanza pragmatica delle differenze, senza però cadere nella trappola dell’incommensurabilità radicale.

La Proposta: L’Equivocazione come Differenza nell’Esperienza Vissuta

E se l’asimmetria interpretativa, quella che porta al dissenso e richiede l’equivocazione, non riguardasse “schemi concettuali” astratti o “ontologie” separate, ma qualcosa di più radicato e dinamico: l’esperienza vissuta?

Qui la fenomenologia ci viene in aiuto. Per questa tradizione filosofica, il linguaggio non è primariamente un sistema di rappresentazioni della realtà, ma una pratica incarnata, un modo di interagire con un ambiente fatto di altri esseri e cose. Il significato emerge da questa interazione continua, dall’esperienza in prima persona del mondo, che è sempre situata, corporea, affettiva.

Il “modo di presentazione” di un concetto (per usare un termine che ricorda Frege, ma riletto in chiave non rappresentazionalista) non è un’etichetta mentale staccata dalla realtà, ma è intessuto nell’esperienza vissuta e nelle pratiche sociali linguistiche in cui siamo immersi. Le nostre “cassette degli attrezzi” interpretative si formano attraverso le nostre esperienze uniche e attraverso l’acculturazione in una specifica comunità linguistica (pensiamo ai “giochi linguistici” di Wittgenstein).

Cosa succede quando persone con esperienze vissute molto diverse e cresciute in comunità con pratiche linguistiche differenti cercano di interpretarsi? Nasce l’asimmetria. Le loro strutture interpretative divergono perché sono plasmate da storie, ambienti, relazioni diverse. Il dissenso interlinguistico diventa allora un segno di questa divergenza nell’esperienza vissuta.

Macro photography di due mani con tonalità della pelle diverse che si incontrano delicatamente sopra una mappa antica e sbiadita, obiettivo macro 100mm, illuminazione laterale controllata per evidenziare le texture, alta definizione.

Questo approccio, mi sembra, coglie il meglio dei due mondi:

  • Accoglie il pluralismo (come Viveiros de Castro): Le differenze contano, sono reali e radicate nell’esperienza. L’equivocazione è uno strumento utile per esplorarle senza appiattirle.
  • Rifiuta l’incommensurabilità radicale (come Davidson): L’esperienza vissuta, pur essendo soggettiva e culturalmente modellata, si radica in strutture fondamentali dell’esistenza umana che sono, in qualche misura, universali (Knowles). Le strutture interpretative non sono blocchi monolitici e separati, ma sono dinamiche. L’incontro linguistico stesso è una pratica relazionale, un’esperienza condivisa (anche se asimmetrica) durante la quale possiamo co-costruire nuovi significati, gettare ponti, trovare modi creativi per capirci.

L’obiettivo resta la comprensione, intesa come un processo dinamico di avvicinamento e negoziazione di significato, possibile proprio perché condividiamo, al fondo, la capacità di fare esperienza e di interagire con il mondo e con gli altri. Non miriamo a un accordo totale (che cancellerebbe la differenza), ma a una comprensione sufficiente (“good enough”) per poter interagire, imparare, collaborare.

Pensiamo di nuovo all’esempio del giaguaro “persona”. Per la visione fenomenologica, dire che B è un “naturalista scientifico” e C un “prospettivista amerindio” non significa incasellarli in “mondi” separati. Significa riconoscere che le loro affermazioni (“No” e “Sì”) emergono da esperienze vissute, pratiche comunitarie e modi di relazionarsi con l’ambiente (inclusi i giaguari) profondamente diversi. Questa differenza è pragmatica, influenza la vita quotidiana, le decisioni, le relazioni. L’interpretazione richiede di esplorare questa differenza (equivocazione), ma non è impossibile, perché B e C, in quanto esseri umani capaci di esperienza e dialogo, possono potenzialmente trovare un terreno comune attraverso l’interazione e la co-esperienza.

Conclusione: Verso una Filosofia con gli Altri

Alla fine di questo percorso, cosa abbiamo imparato? Che il dissenso interlinguistico è un fenomeno complesso, legato a doppio filo con l’asimmetria interpretativa. Che né l’universalismo facile né il relativismo radicale sembrano catturarne appieno la natura. Che forse, guardando all’interpretazione come radicata nell’esperienza vissuta e nelle pratiche sociali, possiamo trovare un equilibrio: riconoscere la profonda realtà del pluralismo interpretativo senza rinunciare alla possibilità, sempre faticosa ma reale, della comprensione reciproca.

Mettere in dialogo la filosofia analitica del linguaggio con l’antropologia e la fenomenologia ci permette di affrontare queste domande tenendo insieme rigore concettuale, attenzione alla realtà empirica e consapevolezza delle dimensioni sociali e politiche dell’interpretazione. È un invito a fare, come suggeriva Viveiros de Castro, una “filosofia con gli altri”, che si apra alla vita e alle prospettive di popoli diversi dai nostri, cercando non tanto l’accordo, quanto quella comprensione profonda che nasce dall’incontro autentico con la differenza.

Fonte: Springer

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