Volti e Traumi: Come l’Infanzia Modella lo Sguardo delle Donne sulle Emozioni
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, sono sicura, toccherà le corde di molti: come le esperienze che viviamo da bambini, soprattutto quelle più difficili, possono letteralmente cambiare il modo in cui i nostri occhi vedono il mondo, o meglio, i volti e le emozioni degli altri. Sembra incredibile, vero? Eppure, uno studio recente ha gettato nuova luce proprio su questo legame sottile ma potentissimo, concentrandosi su donne adulte e sulle loro esperienze di maltrattamento infantile.
Avete mai pensato a quanto sia fondamentale, nelle nostre interazioni quotidiane, saper leggere un sorriso, una smorfia di disgusto o un lampo di paura negli occhi di chi ci sta di fronte? È una specie di superpotere che ci permette di navigare le complesse acque delle relazioni umane. Ma cosa succede se questo “radar” emotivo viene influenzato, o addirittura danneggiato, da ferite profonde subite nell’infanzia?
Un’infanzia difficile lascia il segno: ma come?
Partiamo da un presupposto: il maltrattamento infantile non è un blocco monolitico. Può assumere tante forme, purtroppo. Ci sono gli atti di omissione, come la trascuratezza fisica ed emotiva – quando, per intenderci, un bambino non riceve le cure basilari o, cosa altrettanto grave, l’attenzione e il supporto emotivo di cui ha disperatamente bisogno. E poi ci sono gli atti di commissione, come l’abuso sessuale, fisico ed emotivo, perpetrati da un genitore o da chi dovrebbe prendersi cura del bambino. Tutte queste esperienze, come potete immaginare, non passano senza lasciare cicatrici, aumentando il rischio di problemi di salute mentale e fisica, difficoltà sociali e accademiche in età adulta.
Sappiamo da tempo che traumi infantili e disturbi d’ansia e depressione vanno spesso a braccetto. Ma i ricercatori si sono chiesti: c’entra qualcosa il modo in cui queste persone guardano letteralmente le emozioni altrui? E le strategie che usiamo per regolare le nostre emozioni, come la rivalutazione cognitiva (cercare di vedere le cose sotto una luce diversa, più positiva) o la soppressione espressiva (nascondere ciò che proviamo), giocano un ruolo?
Occhi che parlano: cosa ci dice l’eye-tracking?
Per rispondere a queste domande, gli scienziati hanno coinvolto cento donne con storie di maltrattamento infantile. Hanno usato una tecnologia affascinante chiamata eye-tracking, che permette di seguire con precisione dove si posa lo sguardo di una persona e per quanto tempo. Immaginate: alle partecipanti venivano mostrate coppie di volti, uno con un’espressione emotiva (felicità, sorpresa, rabbia, disgusto, paura, tristezza) e l’altro neutro. L’obiettivo era capire se e come il tipo e la gravità del maltrattamento subito, insieme alle strategie di regolazione emotiva abituali, influenzassero la loro attenzione verso questi volti.
Prima di questo studio, le ricerche che usavano altri metodi, come il “dot-probe task”, avevano dato risultati un po’ contrastanti, forse anche per problemi di affidabilità di questi vecchi sistemi. L’eye-tracking, invece, ci offre una misurazione diretta e continua dell’attenzione visiva, molto più precisa. E i risultati, credetemi, sono stati illuminanti.
Abuso fisico ed emotivo: quando la gioia svanisce dallo sguardo
Una delle scoperte più toccanti riguarda l’abuso fisico ed emotivo. È emerso che, quando questi tipi di maltrattamento raggiungono livelli di gravità elevati, la naturale preferenza che tutti noi abbiamo per i volti felici tende a diminuire. È come se la capacità di “agganciarsi” alla gioia altrui si affievolisse. Pensateci: se hai vissuto esperienze in cui le figure di riferimento ti hanno ferito fisicamente o emotivamente, forse un volto sorridente non evoca più quella sensazione di sicurezza e positività che dovrebbe.
In particolare, a livelli severi di abuso emotivo, si è osservato un vero e proprio “bias di allontanamento” dai volti che esprimevano disgusto. Il disgusto è un’emozione potente, spesso legata al rifiuto e alla svalutazione sociale. Chi ha subito abusi emotivi, umiliazioni e svalutazioni, potrebbe trovare l’espressione di disgusto particolarmente aversiva, tanto da distogliere lo sguardo. È un meccanismo di difesa, forse, per non rivivere quel dolore.
Interessante notare che, per l’abuso fisico grave, non solo diminuiva l’attenzione alla felicità, ma aumentava quella verso i volti arrabbiati. Un segnale di minaccia che, evidentemente, diventa prioritario da monitorare.
La trascuratezza emotiva: una sorpresa inaspettata
E la trascuratezza emotiva? Qui i risultati hanno riservato una sorpresa. L’ipotesi iniziale era che, se i tuoi bisogni emotivi sono stati ignorati da bambino, potresti tendere a prestare meno attenzione alle emozioni in generale, sia tue che altrui, da adulto. Invece, lo studio non ha confermato questa idea. Anzi, a livelli elevati di trascuratezza emotiva, le partecipanti mostravano una chiara preferenza attenzionale per i volti positivi rispetto a quelli negativi! Sembra quasi un controsenso, vero? Forse, chi ha sperimentato un vuoto emotivo così grande, da adulto cerca attivamente segnali di positività e connessione, quasi a voler colmare quella mancanza. È una pista affascinante che merita ulteriori approfondimenti.
Il peso complessivo del trauma: un cambio di rotta nell’attenzione
Quando si considera il carico complessivo del maltrattamento infantile (cioè la somma di diverse forme di trauma), emerge un quadro ancora più definito. A livelli di gravità da lievi a moderati, la tendenza a fissare più a lungo i volti felici rimane. Ma quando il trauma complessivo diventa severo, questa preferenza per la felicità scompare completamente. Addirittura, in questi casi, sono i volti arrabbiati a catturare maggiormente l’attenzione. È come se, di fronte a un carico traumatico molto pesante, il sistema di allerta diventasse ipersensibile ai segnali di minaccia (rabbia) e perdesse la capacità di sintonizzarsi sulla positività (felicità). Questo, capite bene, può aumentare significativamente il rischio di sviluppare ansia e depressione.
Regolare le emozioni: due strategie, due sguardi diversi sul mondo
Ma non è solo il tipo o la gravità del trauma a contare. Anche il modo in cui, da adulti, gestiamo le nostre emozioni fa la differenza. Lo studio ha esaminato due strategie principali: la soppressione espressiva (il classico “tengo tutto dentro”) e la rivalutazione cognitiva (cercare di dare un significato diverso, meno negativo, a ciò che accade).
Ebbene, chi tende abitualmente a sopprimere le proprie emozioni mostra una minore attenzione verso i volti emotivi in generale, e una maggiore attenzione verso quelli neutri. È come se, nel tentativo di non far trasparire nulla, si evitasse anche di “sentire” troppo le emozioni altrui, quasi per proteggersi da un contagio emotivo. Potrebbe essere una sorta di strategia di evitamento generale, che opera sia a livello espressivo che percettivo.
Al contrario, chi utilizza più spesso la rivalutazione cognitiva tende a prestare maggiore attenzione ai volti emotivi, indipendentemente dalla loro valenza (positiva o negativa). Questo ha senso: per poter reinterpretare un’emozione, devi prima notarla, capirla. Una maggiore attenzione alle informazioni socio-emotive potrebbe favorire proprio questo processo di rielaborazione e dare un significato più costruttivo alle esperienze.
Cosa ci portiamo a casa da questa ricerca?
Quello che emerge con forza è che le nostre esperienze infantili e le strategie che adottiamo per navigare il nostro mondo interiore plasmano profondamente il modo in cui ci relazioniamo con le emozioni degli altri. Non siamo tutti uguali di fronte a un sorriso o a una lacrima, e le ferite del passato possono lasciare un’impronta visibile persino nel nostro modo di guardare.
Certo, come ogni studio, anche questo ha i suoi limiti. Ad esempio, si è concentrato solo su donne, e le esperienze di maltrattamento sono state auto-riferite. Sarebbe interessante vedere se risultati simili emergono anche negli uomini o utilizzando metodi diversi per valutare i traumi. Inoltre, l’uso di volti neutri come termine di paragone potrebbe essere discusso, dato che persone con storie di maltrattamento potrebbero interpretare un volto neutro come negativo.
Nonostante ciò, questa ricerca apre finestre importantissime sulla comprensione dei meccanismi che legano trauma, regolazione emotiva e attenzione sociale. Ci ricorda che dietro ogni sguardo c’è una storia, e che comprendere quella storia può aiutarci a capire meglio noi stessi e gli altri. E, forse, a trovare strade più efficaci per curare le ferite che l’infanzia, a volte, ci lascia.
Fonte: Springer