Tibia Rotta e Non Guarisce? Il Chiodo Retrogrado Può Evitare l’Amputazione!
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento un po’ tosto, ma che riguarda una speranza concreta per chi si trova ad affrontare un problema serio: la pseudoartrosi della tibia distale. Immaginatevi un osso lungo, come la tibia, che dopo una frattura proprio non ne vuole sapere di guarire. Un bel problema, vero? Ebbene, capita più spesso di quanto si pensi, soprattutto nella parte finale della tibia, quella più vicina alla caviglia.
Ma cos’è esattamente una pseudoartrosi?
In parole povere, è quando i due monconi di un osso fratturato, invece di saldarsi e formare un callo osseo solido, rimangono separati, come se l’osso “dimenticasse” di dover guarire. Questo può succedere per tanti motivi: infezioni, scarsa vascolarizzazione, fratture molto complesse… Insomma, un vero rompicapo per noi medici e, soprattutto, per i pazienti. La prevalenza, ci dicono gli studi, varia dall’1 al 10% dei casi di frattura tibiale, e la zona più colpita è proprio il quinto distale.
La sfida della tibia distale: un osso “difficile”
Perché proprio lì? Beh, la parte terminale della tibia ha una vascolarizzazione un po’ più precaria e, se la frattura è esposta o molto frammentata, il rischio di infezioni e di perdita di sostanza ossea aumenta. A volte, dopo le necessarie pulizie chirurgiche (il cosiddetto debridement), rimane così poco osso “buono” che fissare una placca o un chiodo tradizionale diventa un’impresa quasi impossibile. In questi casi, purtroppo, una delle opzioni che si profila all’orizzonte è l’amputazione. Ma è qui che entra in gioco una tecnica che può davvero fare la differenza.
L’inchiodamento endomidollare retrogrado: una luce in fondo al tunnel
Sto parlando dell’inchiodamento endomidollare retrogrado con artrodesi del retropiede. Un nome un po’ lungo, lo so, ma cerchiamo di capirlo insieme. “Endomidollare” significa che si inserisce un chiodo all’interno del canale dell’osso. “Retrogrado” vuol dire che questo chiodo viene inserito dal basso, solitamente attraverso il calcagno, risalendo verso la tibia. L'”artrodesi del retropiede”, invece, è una procedura chirurgica che fonde insieme le ossa del calcagno, dell’astragalo e la parte distale della tibia. In pratica, si sacrifica il movimento della caviglia per ottenere una struttura stabile e solida, capace di sopportare il peso del corpo e, soprattutto, di dare una chance all’osso di consolidarsi.
Questa tecnica è spesso considerata l’ultima spiaggia, specialmente quando c’è poco osso a disposizione per un fissaggio standard o quando le infezioni hanno fatto parecchi danni. L’obiettivo è chiaro: salvare l’arto.
Cosa dice la scienza? Uno sguardo allo studio
Recentemente ho letto uno studio interessante (quello che ha ispirato questo articolo, trovate il link in fondo!) che ha analizzato proprio i risultati di questa procedura in pazienti con pseudoartrosi della tibia distale. I ricercatori hanno seguito 27 pazienti tra il 2010 e il 2018. L’obiettivo primario era vedere quanti pazienti ottenevano una consolidazione ossea a un anno dall’intervento e quanti non avevano infezioni.
I risultati sono incoraggianti, anche se con qualche ombra. Dopo un anno, il 48% dei pazienti mostrava una consolidazione ossea. Questa percentuale saliva al 75% dopo due anni. Certo, non è il 100%, e c’è stato un 14% di pazienti che purtroppo ha dovuto subire un’amputazione in un secondo momento, spesso a causa di infezioni persistenti. Ma pensiamoci: per molti di loro, l’alternativa era l’amputazione fin da subito.
Nello studio, la maggioranza dei pazienti (77%) ha ricevuto un tipo di chiodo chiamato ETN PROtect, che ha la particolarità di essere rivestito di antibiotico (Gentamicina) e di essere disponibile in lunghezze maggiori, cosa utile quando il difetto osseo è esteso. Gli altri hanno ricevuto un chiodo chiamato HAN (Hindfoot Arthrodesis Nail), più corto e specificamente disegnato per l’artrodesi del retropiede. La scelta dipendeva da vari fattori, come la presenza di infezione, l’estensione del difetto e la necessità di revisioni.

Non è tutto oro quel che luccica: revisioni e infezioni
Come in ogni chirurgia complessa, ci possono essere delle complicazioni. Nello studio, il 26% dei pazienti ha avuto bisogno di revisioni chirurgiche maggiori (cioè interventi che richiedevano una revisione ossea o una modifica del chiodo), mentre il 15% ha avuto bisogno di revisioni minori (limitate ai tessuti molli, come per una secrezione persistente della ferita). Le reinfezioni sono un nemico temibile in questi casi, soprattutto quando si parte da pseudoartrosi già infette. Lo studio ha riportato un tasso di reinfezione del 27%, che potrebbe sembrare alto, ma va contestualizzato considerando la gravità dei casi trattati.
Un arsenale di supporto: innesti, fattori di crescita e la tecnica di Masquelet
Per favorire la guarigione ossea, spesso non basta solo il chiodo. Si ricorre a diverse strategie:
- Innesti ossei: Si utilizza osso prelevato dallo stesso paziente (autologo, ad esempio dalla cresta iliaca o dal femore con una tecnica chiamata RIA) o sostituti ossei sintetici come il tricalcio fosfato (Vitoss®).
- Fattori di crescita: Sostanze come le proteine morfogenetiche ossee (rhBMP-2 o rhBMP-7) possono dare una “spinta” alla rigenerazione dell’osso.
- Tecnica di Masquelet: In caso di infezioni gravi o grossi difetti ossei, si può usare questa tecnica a due tempi. Prima si rimuove tutto il tessuto infetto e si riempie il difetto con uno spaziatore di cemento antibiotato. Dopo qualche settimana, si rimuove lo spaziatore e si riempie il vuoto (che nel frattempo ha sviluppato una membrana biologica) con innesto osseo.
La combinazione di queste tecniche viene decisa dal chirurgo caso per caso, in base alla situazione specifica del paziente.
Fattori di rischio: fumo e diabete sotto la lente
Sappiamo che fumo e diabete non sono amici della guarigione ossea. Curiosamente, in questo specifico studio, non è emersa una correlazione statisticamente significativa tra questi fattori e il mancato consolidamento, forse anche a causa del numero relativamente piccolo di pazienti. Tuttavia, la tendenza generale e la letteratura scientifica ci dicono che è sempre meglio tenere sotto controllo questi aspetti. Per quanto riguarda le reinfezioni, sembra esserci una leggera tendenza a un tasso più alto in chi non consolida, ma anche qui i numeri piccoli non permettono conclusioni definitive.
Un’opzione valida per evitare l’amputazione
Quindi, cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Che l’inchiodamento retrogrado con artrodesi del retropiede è un’opzione terapeutica valida e sicura per le pseudoartrosi della tibia distale, soprattutto quando c’è poco osso per i metodi tradizionali e l’amputazione sembra l’unica via. Offre la stabilità necessaria e la possibilità di dinamizzazione, che può influenzare positivamente la guarigione. Certo, il controllo dell’infezione e un trattamento adeguato del difetto osseo sono fondamentali.
Lo studio stesso riconosce alcune limitazioni, come il numero ridotto di pazienti e la natura retrospettiva dell’analisi. Serviranno ulteriori ricerche, magari studi randomizzati controllati su gruppi più ampi, per confermare questi risultati. Ma per ora, possiamo dire che questa tecnica rappresenta una speranza concreta, un’arma in più nel nostro arsenale per combattere le pseudoartrosi difficili e, soprattutto, per cercare di salvare un arto. E questo, credetemi, non è poco.
Fonte: Springer
