Fotografia grandangolare, 10mm, messa a fuoco nitida. Interno di una chiesa luminosa ma quasi vuota, con una singola figura seduta in una panca lontana. L'immagine evoca un senso di accoglienza formale ma anche di potenziale isolamento e la necessità di guardare oltre la semplice presenza fisica per una vera inclusione nella salute mentale.

Chiesa e Salute Mentale: Quando Esserci Non Basta per Sentirsi Accolti

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema che mi sta molto a cuore e che, secondo me, merita una riflessione profonda: il rapporto tra la partecipazione alla vita di chiesa e il percorso di recupero di chi affronta sfide legate alla salute mentale. Spesso pensiamo alla fede e alla comunità religiosa come a un porto sicuro, un luogo di supporto spirituale e sociale. Ed è vero, per molti è così. Ma è sempre così semplice? Davvero basta “esserci”, varcare la soglia della chiesa, per sentirsi parte di qualcosa e trovare giovamento?

Mi sono imbattuto in uno studio affascinante (trovate il link alla fine!) che ha cercato di andare oltre la semplice idea di “accesso” alla chiesa. Ha esplorato le esperienze dirette di persone in recupero da problemi di salute mentale che frequentano comunità cristiane, in particolare nel contesto di Hong Kong. E quello che emerge è un quadro molto più sfumato e, a tratti, doloroso di quanto potremmo immaginare.

Per capire meglio queste esperienze, i ricercatori hanno usato un modello chiamato APE (Access, Participation, Empowerment), che tradurrei liberamente come Accesso, Partecipazione e Responsabilizzazione/Empowerment. È un modo intelligente per non limitarsi a dire “sì” o “no” all’inclusione, ma per valutarne i diversi livelli. Vediamo cosa hanno scoperto applicandolo alle storie di queste persone.

Accesso: Porte Aperte, Ma Fino a un Certo Punto

La prima cosa che salta all’occhio è che, in generale, l’accesso alle attività formali della chiesa – come le funzioni religiose, i gruppi di studio biblico, i momenti di preghiera – sembra essere garantito. Le persone intervistate hanno raccontato di poter partecipare a questi incontri senza grosse barriere. Anzi, per alcuni, l’invito a partecipare a un evento in chiesa è stato proprio l’inizio di un percorso.

Però, la faccenda si complica quando si passa dagli incontri ufficiali ai momenti informali, quelli più legati alla socializzazione spontanea tra i membri della comunità. Qui iniziano a emergere le prime crepe. Sebbene molti si sentissero benvenuti anche in queste occasioni (cene dopo il gruppo di studio, uscite), alcuni hanno descritto una sensazione di esclusione sottile ma tangibile.

  • “Organizzavano uscite, prendevano il tè insieme, ma io non venivo incluso/a.”
  • “Il nostro rapporto sembra limitato al gruppo di studio… non ci siamo mai visti privatamente per un pasto.”

Questa difficoltà a entrare nel tessuto sociale più intimo della comunità porta a un’altra conseguenza importante: la necessità di nascondersi. Molti partecipanti hanno ammesso di essere molto cauti nel rivelare la propria condizione di salute mentale, per paura di essere giudicati, allontanati, o semplicemente non capiti.

“Come oserei dirlo agli altri?… Ho paura che scapperebbero via vedendomi.” – ha confessato una partecipante. Questa paura, questo bisogno di indossare una maschera anche nel luogo che dovrebbe essere di accoglienza, è un campanello d’allarme potentissimo, non trovate?

Fotografia di ritratto, 35mm, bianco e nero, profondità di campo. Una persona seduta da sola su una panca di chiesa mentre un piccolo gruppo conversa animatamente in disparte sullo sfondo, evocando un senso di esclusione sottile durante un momento informale.

Partecipazione: Volontari Sì, Ma Senza Voce in Capitolo?

Il secondo punto del modello APE è la Partecipazione. Qui le cose si fanno ancora più interessanti. Le persone intervistate hanno raccontato di essere coinvolte in attività di volontariato all’interno della chiesa, ma quasi sempre in ruoli molto basilari e di supporto: accoglienza, raccolta delle offerte, inserimento dati, aiuto materiale.

Certo, sono compiti utili, ma raramente implicavano responsabilità decisionali, pianificazione o leadership. È come se ci fosse un “soffitto di cristallo” della partecipazione: puoi dare una mano, ma fino a un certo punto. Questo fenomeno è stato definito “participation ceiling” in altri contesti, e sembra calzare a pennello.

La cosa che colpisce è che questa limitazione non deriva da una mancanza di volontà. Anzi, molti hanno espresso il desiderio e la disponibilità a fare di più, a contribuire in modo più significativo, magari mettendo a frutto le proprie capacità una volta recuperate. Sentivano che avere ruoli più impegnativi li avrebbe aiutati a sentirsi più parte della comunità, a riconoscere i propri punti di forza e a superare sentimenti di inferiorità.

“Le chiese dovrebbero assegnare ruoli adatti alle capacità individuali, permettendoci di sperimentare il contributo e il senso di appartenenza.” – ha suggerito una partecipante.

È un po’ come essere invitati a una festa ma poter stare solo in anticamera ad appendere i cappotti degli altri. Si è dentro, ma non si partecipa davvero alla festa. E questo, alla lunga, può essere frustrante.

Empowerment o Disempowerment? Il Rovescio della Medaglia

E arriviamo al terzo punto, l’Empowerment, la responsabilizzazione, il sentirsi più forti e capaci grazie all’esperienza comunitaria. Qui, purtroppo, lo studio rivela l’aspetto forse più preoccupante. Invece di sentirsi potenziate, molte persone hanno descritto esperienze che le hanno fatte sentire disempowered, cioè private di potere, sminuite, a volte persino ferite.

Come? In vari modi:

  • Essere considerati “strani” o “diversi”: Comportamenti magari legati alla propria condizione (come esprimere emozioni in modo più aperto o avere opinioni spontanee) venivano visti come fuori luogo, non conformi alle “norme” non scritte della comunità.
  • Non poter essere sé stessi: La necessità di conformarsi, di non mostrare le proprie fragilità o emozioni “scomode” (come piangere durante una funzione) per paura del giudizio o del rimprovero.
  • Esperienze negative con leader e altri membri: Racconti di confidenze tradite, richieste di aiuto liquidate con superficialità o consigli inappropriati (“trovati una ragazza e ti passa l’ansia”), fino a veri e propri allontanamenti da parte di figure di riferimento.

Una persona ha raccontato di essere stata rimossa dai contatti da un leader di gruppo a cui si era confidata, un’esperienza che l’ha portata a lasciare la chiesa portandosi dietro un dolore emotivo profondo. Queste non sono semplici incomprensioni, sono ferite che minano la fiducia e contraddicono l’idea stessa di comunità di supporto.

Invece di trovare un ambiente che favorisse la crescita personale e l’autostima, queste persone si sono scontrate con dinamiche che, al contrario, sembravano rafforzare l’insicurezza e il senso di inadeguatezza. Un vero paradosso.

Fotografia macro, 100mm, illuminazione controllata. Dettaglio di mani che svolgono un compito semplice e ripetitivo, come piegare volantini o sistemare oggetti su uno scaffale, all'interno di una chiesa, simboleggiando ruoli di supporto ma limitati nella partecipazione attiva.

Lo Stigma: Una Questione Più Sociale che Spirituale?

Un aspetto interessante emerso dallo studio riguarda la natura dello stigma percepito. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare (o a quanto emerso in altri contesti), i partecipanti non hanno parlato tanto di stigma legato a credenze religiose specifiche (come l’idea di possessione demoniaca o punizione divina). Hanno piuttosto descritto un’esclusione e un pregiudizio simili a quelli che si incontrano nella società in generale.

Sembra quasi che la chiesa, in questo caso, rifletta le stesse incomprensioni e paure sul tema della salute mentale presenti nel “mondo fuori”. Forse, come suggeriscono i ricercatori, questo è legato a una certa secolarizzazione anche all’interno delle comunità religiose, dove le dinamiche sociali prendono il sopravvento su quelle puramente spirituali.

Cosa Possiamo Imparare? Andare Oltre la Semplice Presenza

Allora, cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Sicuramente la consapevolezza che non basta aprire le porte della chiesa per essere davvero inclusivi nei confronti di chi sta affrontando un percorso di recupero mentale. L’accesso è solo il primo passo, forse il più facile.

La vera sfida sta nel creare comunità dove la partecipazione sia significativa e l’empowerment sia una realtà. Questo richiede un impegno attivo da parte di tutti: leader, membri della comunità, ma anche professionisti della salute mentale che possono collaborare con le realtà ecclesiali.

Cosa si potrebbe fare concretamente?

  • Educazione e Sensibilizzazione: Combattere lo stigma e la disinformazione sulla salute mentale all’interno delle chiese.
  • Ascolto Attivo: Creare spazi sicuri dove le persone possano condividere le loro esperienze senza paura di essere giudicate o fraintese.
  • Ruoli Significativi: Assegnare compiti e responsabilità basati sulle capacità e aspirazioni individuali, non su pregiudizi inconsci.
  • Promuovere Relazioni Autentiche: Facilitare l’integrazione reale, andando oltre la formalità degli incontri programmati, per rompere la mentalità “noi vs loro”.
  • Supporto ai Leader: Formare i responsabili delle comunità affinché siano preparati a gestire queste dinamiche complesse con sensibilità ed empatia.

Questo studio, pur con i suoi limiti (campione piccolo, contesto specifico), ci lancia un messaggio importante: dobbiamo guardare alle esperienze vissute, alle sfumature, alle esclusioni sottili che spesso non appaiono nelle statistiche. Perché è lì, in quelle pieghe, che si gioca la partita vera dell’accoglienza e del supporto. E per chi crede nel valore della comunità e della fede come risorse per il benessere, questa è una sfida che non possiamo ignorare.

Fotografia di ritratto, stile film noir, 35mm. Primo piano del volto di una persona parzialmente in ombra, con un'espressione pensierosa e trattenuta, quasi sofferente, suggerendo la necessità di nascondere le proprie vere emozioni o la propria identità per paura del giudizio all'interno di un contesto comunitario.

Voi cosa ne pensate? Avete esperienze simili o conoscete realtà dove l’inclusione funziona davvero? Parliamone!

Fonte: Springer

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