Fotografia di ritratto di gruppo, tre educatrici di mezza età dall'aspetto riflessivo sedute attorno a un tavolo in una sala riunioni luminosa, discutono appunti sparsi, obiettivo 35mm, profondità di campo, toni caldi e morbidi.

Chi si Prende Cura di Chi Cura? Un Viaggio Poetico nel Cuore dei Formatori di Insegnanti

Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in una riflessione un po’ diversa dal solito, un viaggio intimo nel mondo di figure professionali fondamentali ma spesso lasciate nell’ombra: i formatori dei futuri insegnanti, in particolare quelli che li accompagnano durante le prime, cruciali esperienze professionali sul campo (il tirocinio, per intenderci). Ci siamo mai chiesti chi si prende cura di loro, di queste persone che dedicano energie emotive, pedagogiche e professionali enormi per far crescere la prossima generazione di docenti?

Il titolo dell’articolo da cui prendiamo spunto, “Who cares for the carers”, pone proprio questa domanda, usando la poesia come strumento per esplorare le dimensioni più profonde e personali della loro identità in continua evoluzione. Ed è proprio questo che cercheremo di fare insieme: usare un linguaggio che arrivi al cuore, lontano dalle narrazioni accademiche convenzionali, per capire cosa significa “prendersi cura” ed “essere curati” in questo contesto.

Il Lavoro Invisibile: L’Onere Emotivo dei Formatori

Noi formatori di insegnanti ci troviamo in una posizione unica nell’istruzione superiore. Siamo un ponte tra teoria e pratica, figure che nutrono i futuri docenti (i cosiddetti pre-service teachers) nei momenti più delicati del loro sviluppo. Facilitiamo quella transizione complessa da studente a insegnante, un percorso denso di sfide. Questo è un vero e proprio “lavoro di cura”, come lo definirebbe Noddings (1992): forniamo supporto emotivo, pedagogico, professionale proprio quando i tirocinanti si sentono più vulnerabili, imparando a diventare insegnanti e navigando tra università e scuola.

Tuttavia, mentre l’importanza della cura nell’educazione è ampiamente documentata, si presta molta meno attenzione a chi questa cura la fornisce. Specialmente nel contesto dell’esperienza professionale, dove noi formatori gestiamo relazioni complesse tra università, scuole, tutor scolastici e tirocinanti, affrontando richieste emotive intense e pressioni istituzionali. La letteratura esistente, pur riconoscendo il nostro ruolo vitale, ha esplorato poco come manteniamo il nostro benessere mentre supportiamo gli altri in periodi così intensi. Come si intrecciano il carico emotivo di questo lavoro di cura e la nostra identità professionale? È una domanda cruciale, soprattutto oggi, con le crescenti pressioni nel mondo accademico.

Fotografia in bianco e nero, primo piano sulle mani di un'educatrice che stringono leggermente una tazza di caffè, espressione stanca ma determinata sul volto sfocato sullo sfondo, obiettivo 50mm, profondità di campo ridotta, stile film noir.

Oltre le Parole Accademiche: La Forza dell’Indagine Poetica

Ecco perché, nel lavoro che vi racconto, abbiamo pensato che l’indagine poetica potesse offrirci una strada nuova. La poesia ci permette di catturare quelle dimensioni profondamente sentite, personali, della nostra crescita identitaria continua. Ci dà modo di condividere esperienze e intuizioni sull’atto di curare e di essere curati in modo autentico, discostandoci dalle narrazioni accademiche più tradizionali.

Abbiamo utilizzato una versione adattata del metodo Lectio Divina (lettura divina), una pratica contemplativa che onora la pausa, la lettura, la rilettura e la contemplazione delle parole, sia individuali che collettive. Attraverso l’autoriflessione poetica e la rappresentazione poetica collettiva, possiamo scoprire e navigare le sottili tensioni che modellano il nostro viaggio identitario, promuovendo una comprensione comune del nostro ruolo. Questo approccio ci aiuta a illuminare quel “lavoro emotivo” spesso invisibile e contribuisce a discussioni più ampie su pratiche di cura sostenibili nella formazione degli insegnanti.

Partendo da un quadro socio-costruttivista e usando l’indagine poetica come metodologia, ci siamo immersi in un’etnografia a più voci, esaminando le esperienze vissute da noi formatori iniziali nell’ambito dell’esperienza professionale. Analizzando una poesia collettiva che abbiamo creato attraverso le lenti delle dimensioni dell’apprendimento di Wenger (1998) – significato, pratica, comunità e identità – scopriamo le complessità del lavoro di cura.

La Nostra Voce Collettiva: Echi dal Campo

La poesia che è emersa da questo processo collettivo è potente. Esprime la sensazione di essere il “punto fermo”, la connessione costante mentre tutto intorno cambia (studenti, scuole, tutor). Parla della necessità di avere una prospettiva olistica, di mettere insieme i pezzi per gli studenti, un processo che non è mai “confezionato”. C’è il desiderio di vederli crescere, sviluppare un senso di sé.

Ma emergono anche le fatiche:

  • L’ascolto costante di molteplici prospettive (scuole, studenti, tutor).
  • La creatività richiesta per risolvere problemi unici, quasi “su misura”.
  • La consapevolezza di essere umani, di non poter sempre fare tutto giusto, di imparare dagli errori.
  • La pressione, la fiducia tradita a volte, il conflitto tra il “dovrei” e il “devo”.
  • Il peso delle aspettative, la sensazione di deludere qualcuno, le crepe nel sistema.

E poi, il nodo cruciale: il carico emotivo. La responsabilità enorme, la realtà delle decisioni che hanno un impatto reale, il costo umano, i nostri cuori costantemente impegnati in una valutazione del rischio. La sensazione lancinante di non essere visti, che il tirocinio sia visto come il momento in cui “rompersi”, e che tocchi a noi gestire i problemi. “Come diavolo abbiamo permesso che accadesse?”, ci chiediamo nella poesia. Lo stress, le lacrime, la gestione di voci forti, la rabbia… tutto ricade su di noi. E vediamo lo stesso ciclo ripetersi nei tutor scolastici, anch’essi emotivamente esausti. Portiamo anche questo peso.

Fotografia macro, dettaglio di una penna che scrive parole evocative su un taccuino aperto, luce calda laterale che illumina la texture della carta, obiettivo macro 100mm, messa a fuoco precisa, alta definizione.

Imparare Essendo, Facendo, Appartenendo e Diventando

Analizzando queste esperienze attraverso le lenti di Wenger, vediamo come si intrecciano le quattro dimensioni dell’apprendimento:

Significato (Imparare come Esperienza): La poesia è l’articolazione del nostro processo di dare senso a queste esperienze. “Siamo umani”, una frase potente. Non possiamo essere tutto per tutti, anche se a volte sembra richiesto. Non è sostenibile. Feriamo, soffriamo, empatizziamo, celebriamo… per i nostri colleghi, studenti, per il settore. Stiamo imparando, disimparando e reimparando cosa significa prendersi cura, riconoscendo che le nostre identità personali e professionali sono intrecciate. Umanizzarci è un atto di (ri)concettualizzare cosa significa “esserci”, è scegliere di imparare a fermarci.

Pratica (Imparare come Fare): Il nostro lavoro richiede un impegno costante: implementare pedagogie, fare da mentori, negoziare contesti, sfidare norme. Siamo sempre “accesi”, sempre a “fare”. Ma c’è una tensione tra l'”essere” e il “fare”. L’accademia ci spinge a narrare le nostre storie in modi che non sempre si allineano con la condivisione compassionevole. È un’altra spada a doppio taglio. Stiamo (dis)imparando il “fare”, chiedendoci se ci sia un modo diverso, vedendo tutti “spezzarsi” intorno a noi. Chi si prende cura di chi cura?

Comunità (Imparare come Appartenenza): La poesia rivela le forze intrinseche della nostra comunità di formatori: autenticità, coraggio, compassione, capacità di approfondire le relazioni. “Valorizziamo l’un l’altro, le relazioni e l’apprendimento”, scriviamo. Siamo noi la “costante” in una rete di stakeholder interni ed esterni, una comunità tanto fragile quanto robusta. La fragilità sta nella fiducia da costruire rapidamente; la robustezza nelle competenze di ciascuno. Ma c’è una netta mancanza di reciprocità: il supporto è fornito *da* noi, non *a* noi. Questo svuotare la nostra coppa di empatia riflette lo stereotipo di genere nei lavori di cura (il team di cui parliamo è interamente femminile, e questo lavoro di cura è spesso sottovalutato accademicamente). “Ci sentiamo non visti”. La comunità e l’appartenenza le sentiamo *dentro* il nostro team, non riconosciute esternamente. Siamo stati costretti a creare la nostra rete di supporto reciproco. È un progresso? O una soluzione a breve termine?

Identità (Imparare come Divenire): L’esperienza professionale è dove “la gomma incontra la strada”, dove la teoria diventa pratica e i futuri insegnanti iniziano a sviluppare la loro identità. Un processo complesso, stressante per loro, che noi gestiamo. “Portiamo tutto insieme per i nostri studenti”, sperando che crescano. Ma le aspettative sul lavoro stanno cambiando generazionalmente, con una maggiore richiesta di investimento emotivo reciproco. C’è anche il problema dell’abbandono precoce della professione insegnante. La poesia mostra il pesante tributo emotivo su di noi, “emotivamente esausti”, che portiamo il “carico emotivo”. C’è una crescente richiesta da parte degli studenti di “cura”, che va oltre la semplice istruzione accademica. Questo impatta sul nostro carico di lavoro e benessere emotivo. Le decisioni che prendiamo hanno un costo, sui nostri cuori. Siamo a rischio di burnout. La nostra identità professionale di “tutore pastorale” è tanto importante quanto quella di “accademico”.

Prendersi Cura di Sé Come Atto Trasformativo (e Politico)

Riconcettualizzare la cura come pratica radicale e trasformativa, ispirandoci ad Audre Lorde (“Prendersi cura di sé non è autoindulgenza, è autoconservazione, ed è un atto di guerra politica”), può essere una via d’uscita. Per noi formatori, questo sposta la cura da una funzione di supporto a un atto di resistenza contro pressioni sistemiche che sminuiscono gli aspetti relazionali.

Questo potenziale trasformativo emerge nel “leaning in” (appoggiarsi dentro), un impegno collettivo per il benessere che riconosce l’interconnessione delle nostre vite professionali. Non è solo auto-cura individuale, ma una pratica collettiva che può trasformare intere comunità educative, resistendo a comportamenti istituzionalizzati che privilegiano l’efficienza sulla relazione. Prendersi cura diventa così una pratica personale e una dichiarazione politica.

Questo approccio radicale alla cura è la base per esplorare come l’indagine poetica possa illuminare e sostenere pratiche di cura trasformative. Abbracciando la cura come pratica collettiva, iniziamo a reimmaginare cosa significa prendersi cura di chi cura, sfidando le strutture di potere tradizionali e promuovendo crescita e connessione autentiche.

Conclusione: Una Voce per Essere Umani

Questo lavoro con l’indagine poetica è stato potente. Ci ha permesso di esplorare, rifiutare, ricostruire, riconsiderare chi vogliamo essere come formatori. È un lavoro riflessivo profondo, e la poesia ci ha dato voce per articolare questo momento prezioso – un momento in cui ci siamo riuniti per condividere autenticamente le nostre esperienze e andare avanti come comunità, prendendoci cura l’uno dell’altro.

La nostra poesia è una testimonianza di questo tempo e uno strumento continuo per esplorare le nostre identità. Abbiamo interrogato le difficoltà sistemiche nell’istruzione superiore e, più specificamente, nel nostro spazio. Abbiamo trovato conforto in una narrazione condivisa che ci libera dal peso delle aspettative esterne e ci dà il permesso di non perseguire un ideale impossibile di perfezione. Non siamo perfetti, siamo umani. Stiamo imparando chi siamo e chi stiamo diventando mentre ci prendiamo cura di noi stessi e degli altri.

Questi sforzi collaborativi non solo approfondiscono la comprensione del nostro ruolo, ma rafforzano anche le relazioni collegiali. I risultati aprono una nuova prospettiva su un’area poco studiata e sottolineano la capacità di rafforzare i legami all’interno del team, fornendo una voce collettiva e uno spazio sicuro per essere umani imperfetti, e per celebrare questo. È chiaro che sono necessarie ulteriori collaborazioni simili, non solo per colmare le lacune nella ricerca, ma, forse ancora più importante, per essere noi stessi, essere ascoltati e accettati. Stiamo imparando ad essere, ad essere con noi stessi e tra di noi mentre navighiamo nelle nostre identità professionali.

Fonte: Springer

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