Immagine fotorealistica di un'aula universitaria vista dalla prospettiva di uno studente seduto tra il pubblico. Sul palco, uno speaker carismatico gesticola durante un discorso. In primo piano, la testa di profilo dello studente con sovrapposte delle onde cerebrali luminose e stilizzate che si collegano idealmente allo speaker. Obiettivo zoom 24-70mm, profondità di campo che mantiene a fuoco sia lo studente in primo piano che lo speaker, illuminazione mista tra quella ambientale dell'aula e quella più calda del palco.

Cervelli Sincronizzati: Cosa Accade Nella Nostra Testa Durante un Discorso Pubblico?

Avete mai assistito a un discorso pubblico? Certo che sì! Che sia una lezione all’università, una presentazione di lavoro, un comizio politico o un talk ispirazionale stile TED (o, come in questo caso, YiXi, il suo cugino cinese), il public speaking è ovunque. È uno strumento potentissimo: può informare, ispirare, persuadere, motivare, persino intrattenere. Ma, ammettiamolo, non tutti i discorsi sono uguali. Alcuni ci catturano, ci tengono incollati alla sedia, ci fanno sentire connessi con chi parla e con gli altri spettatori. Altri… beh, diciamo che fanno un po’ l’effetto di una ninna nanna.

Ma cosa distingue un discorso efficace da uno che fallisce miseramente nel catturare la nostra attenzione? Cosa succede esattamente nel nostro cervello quando ascoltiamo qualcuno parlare a un pubblico? È una domanda affascinante, non trovate? Per anni ce la siamo cavata con l’intuizione, l’esperienza, le regole della retorica. Ma oggi, grazie alle neuroscienze, possiamo letteralmente *guardare* dentro la testa delle persone mentre ascoltano. Ed è proprio quello che ha fatto un gruppo di ricercatori, regalandoci un nuovo, prezioso dataset di risonanza magnetica funzionale (fMRI).

La Sfida del Public Speaking Efficace

Pensateci: comunicare idee complesse, magari astratte, da un esperto a un pubblico che ne sa meno (come in una lezione) richiede precisione, chiarezza, capacità di sintesi. Non basta “dire le cose”, bisogna farle arrivare, farle “risonare” nella mente di chi ascolta. Discorsi persuasivi o di intrattenimento magari puntano più sull’emotività, sulla narrazione, su tecniche retoriche. Ma come si misura l’efficacia di un discorso puramente informativo? E cosa succede a livello neurale quando un discorso “funziona”?

Studi precedenti avevano già iniziato a esplorare la sincronizzazione neurale – cioè quanto i cervelli di persone diverse si “attivano” in modo simile mentre vivono la stessa esperienza – in risposta a film, dialoghi, musica. Ma il public speaking informativo era rimasto un territorio un po’ inesplorato. Fino ad ora.

Entra in Scena la Neuroscienza: Lo Studio fMRI

Ed eccoci al cuore della questione. I ricercatori hanno messo insieme un dataset fMRI “naturalistico”. Che significa? Invece di sottoporre i partecipanti a compiti artificiali in laboratorio, li hanno fatti accomodare (si fa per dire, dentro la macchina fMRI!) e gli hanno fatto guardare due video di discorsi pubblici reali, presi dalla piattaforma cinese YiXi.

Hanno reclutato 31 giovani partecipanti (età media 22 anni circa) e, mentre questi guardavano i video, la macchina fMRI registrava l’attività del loro cervello. Immaginate: siete lì, cuffiette per l’audio, uno specchietto per vedere lo schermo, e state semplicemente ascoltando un discorso, un po’ come fareste a casa o in un’aula. Ma intanto, i vostri neuroni “parlano” e la macchina li ascolta.

La cosa interessante è la scelta dei video. Non due discorsi a caso, ma due interventi informativi, simili per durata (circa 24 minuti l’uno) e argomento (arte e design), ma volutamente diversi per efficacia percepita. Come hanno fatto a stabilirlo?

La Selezione dei Discorsi: Questione di Engagement

Qui il lavoro è stato meticoloso. Sono partiti da una trentina di video YiXi. Poi hanno selezionato delle coppie di discorsi con temi e lunghezze simili, ma che *sembrassero* avere un impatto diverso sul pubblico. Infine, hanno chiesto a un gruppo separato di persone (17 partecipanti) di guardarli e valutarli attentamente, rispondendo a ben 18 domande su comprensione, accordo, risonanza emotiva, chiarezza, organizzazione, persino aspetti come l’intonazione o il linguaggio del corpo dello speaker.

Alla fine, hanno scelto la coppia di video che mostrava la differenza più netta nel punteggio generale di “engagement” (coinvolgimento). Uno era il discorso “ad alto punteggio” (HSS – Higher-Scoring Speech), l’altro quello “a basso punteggio” (LSS – Lower-Scoring Speech). Entrambi parlavano di arte e design, ma uno, evidentemente, riusciva a catturare l’attenzione e l’interesse molto più dell’altro. Questi due video sono diventati gli stimoli per l’esperimento fMRI vero e proprio.

Immagine fotorealistica di una persona all'interno di uno scanner fMRI, vista leggermente dall'alto, con uno schermo visibile che proietta il volto di uno speaker durante un discorso. Illuminazione controllata tipica di un laboratorio medico/di ricerca, focus nitido sullo schermo e sul riflesso negli occhi del partecipante. Obiettivo prime 35mm, profondità di campo ridotta per isolare il soggetto.

Dentro la Macchina: Cosa Ci Dicono i Dati?

Una volta raccolti i dati fMRI (insieme a immagini strutturali del cervello di ogni partecipante), è iniziato il lavoro di analisi e validazione. Bisognava assicurarsi che i dati fossero di buona qualità: controllare i movimenti della testa (stare immobili per quasi un’ora non è facile!), la qualità del segnale, e soprattutto, che i partecipanti fossero stati attenti! Per quest’ultimo punto, alla fine di ogni video hanno posto una semplice domanda sul contenuto: quasi tutti hanno risposto correttamente, segno che l’attenzione c’era.

Ma la parte più succosa è l’analisi della sincronizzazione neurale inter-soggetto (ISC). In pratica, si misura quanto i pattern di attività cerebrale di diversi partecipanti diventano simili mentre guardano lo stesso video. Un ISC elevato suggerisce che lo stimolo sta evocando risposte neurali condivise, un segno di attenzione, comprensione ed engagement condivisi.

E i risultati? Bingo! Come ci si poteva aspettare, il discorso più coinvolgente (HSS) ha generato una sincronizzazione neurale significativamente maggiore rispetto a quello meno coinvolgente (LSS). Le aree cerebrali che si “sincronizzavano” di più includevano quelle legate alla percezione visiva e uditiva (ovvio, stavano guardando e ascoltando!), all’elaborazione del linguaggio e alla cognizione sociale – come la corteccia prefrontale inferiore, il giro temporale superiore e la corteccia cingolata posteriore. È come se il discorso migliore riuscisse a far “viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda” i cervelli degli ascoltatori in modo più efficace e diffuso.

Perché Questo Dataset è Importante?

Al di là della curiosità scientifica, questo dataset è una risorsa preziosa. Primo, perché è uno dei pochi (se non il primo pubblicamente disponibile) a studiare le risposte neurali al public speaking informativo in un contesto naturalistico. Secondo, perché i dati sono disponibili apertamente (su OpenNeuro), quindi altri ricercatori possono usarli per esplorare nuove domande.

Si potrebbe, ad esempio, analizzare come la sincronizzazione cambia nel tempo durante il discorso: ci sono momenti specifici che “agganciano” il pubblico più di altri? Si potrebbero confrontare questi dati con quelli di contesti simili ma diversi, come una lezione interattiva in classe. Le possibilità sono molteplici e potrebbero darci indicazioni pratiche su come rendere la comunicazione, l’insegnamento e la divulgazione più efficaci. Capire cosa rende un discorso “risonante” a livello neurale potrebbe davvero aiutarci a comunicare meglio.

Visualizzazione astratta e fotorealistica di due mappe cerebrali stilizzate, una con aree colorate più intensamente e diffuse (HSS) e l'altra con aree meno intense (LSS), a simboleggiare diversi livelli di sincronizzazione neurale (ISC). Sfondo digitale scuro, illuminazione interna alle mappe cerebrali, alto dettaglio. Obiettivo macro 100mm, focus preciso sulle aree attive.

Certo, come ogni studio, anche questo ha i suoi limiti. I ricercatori stessi sottolineano che avere solo due discorsi (uno “buono” e uno “meno buono”) limita la generalizzabilità. Magari le differenze non dipendono *solo* dall’engagement, ma anche da altri fattori come il tono di voce dello speaker o la qualità video (anche se hanno cercato di minimizzare queste differenze). Serviranno studi futuri con più materiale.

Ma il passo è importante. Abbiamo uno strumento in più per decifrare il codice neurale della comunicazione efficace. E chissà, magari la prossima volta che prepareremo una presentazione o terremo un discorso, penseremo un po’ di più a come far “sincronizzare” i cervelli del nostro pubblico!

Fonte: Springer

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