COVID-19 Grave: La Proteina CD55 ‘Spegne’ le Nostre Difese Immunitarie?
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di una scoperta affascinante e un po’ inquietante che riguarda il COVID-19, in particolare le forme più gravi della malattia. Come sapete, fin dall’inizio della pandemia ci siamo chiesti perché alcune persone sviluppassero sintomi lievi, mentre altre finivano in terapia intensiva. Il nostro sistema immunitario è incredibilmente complesso, una vera orchestra di cellule e molecole che dovrebbero proteggerci. Ma a volte, qualcosa va storto. E sembra che una proteina chiamata CD55 possa giocare un ruolo da “guastafeste” inaspettato.
Il Sistema del Complemento e i Suoi Guardiani
Prima di tuffarci nella scoperta, facciamo un piccolo ripasso. Avete mai sentito parlare del sistema del complemento? È una parte fondamentale della nostra immunità innata, una cascata di proteine che si attivano a vicenda per eliminare patogeni come virus e batteri. Pensatelo come una squadra di pronto intervento. Tuttavia, questa attivazione deve essere finemente regolata, altrimenti rischierebbe di danneggiare le nostre stesse cellule. Qui entrano in gioco delle proteine “guardiane”, come la CD55 (nota anche come Decay-Accelerating Factor o DAF). Il loro compito è proprio quello di tenere a bada il complemento, evitando che vada fuori controllo.
Nel COVID-19, specialmente nelle forme gravi e critiche, si è visto che il sistema del complemento va in iper-attivazione. Si trovano livelli elevati di frammenti del complemento (come C3a, C5a) e del complesso finale C5b-9 (il cosiddetto “complesso di attacco alla membrana”) nel sangue dei pazienti. Questo suggerisce che il complemento contribuisca al danno d’organo, ad esempio nei polmoni. Logico pensare, quindi, che forse le proteine regolatrici come la CD55 non stiano facendo bene il loro lavoro, giusto? Beh, la realtà sembra essere più complessa.
La Sorpresa dai Dati: CD55 Aumenta nei Pazienti Gravi
Utilizzando una tecnica potentissima chiamata single-cell RNA sequencing (scRNA-seq), che permette di analizzare l’espressione genica cellula per cellula, abbiamo esaminato le cellule immunitarie circolanti (PBMC) di pazienti COVID-19 con diversi livelli di gravità (lievi, gravi, critici) e di controlli sani. E qui la sorpresa: invece di trovare meno CD55, abbiamo osservato un aumento significativo dell’espressione del gene CD55 nelle PBMC totali dei pazienti gravi e critici rispetto ai controlli sani e ai pazienti lievi.
Non ci siamo fermati qui. Abbiamo “zoomato” su specifiche popolazioni di cellule immunitarie:
- Linfociti T (CD4+ e CD8+): Anche qui, un chiaro aumento dell’espressione di CD55 nei pazienti gravi e critici.
- Monociti: Stesso schema, con un picco nei pazienti gravi.
- Linfociti B: Tendenza simile, con un aumento marcato nei pazienti gravi.
Questi risultati, ottenuti a livello di RNA messaggero (mRNA), sono stati poi confermati anche a livello proteico tramite citometria a flusso (FACS) su campioni di sangue di altre coorti di pazienti. Insomma, non era un caso: la proteina CD55 era effettivamente più abbondante sulla superficie di queste cellule immunitarie chiave nei pazienti che stavano peggio. Addirittura, i livelli di mRNA di CD55 sembravano correlare con la probabilità di finire in terapia intensiva. Ma perché? Se CD55 serve a proteggere le cellule dal complemento, un suo aumento non dovrebbe essere positivo?
Un Interruttore Inaspettato: CD55 Spegne gli Interferoni di Tipo I
Qui le cose si fanno ancora più interessanti. Sappiamo che una risposta immunitaria efficace contro i virus dipende molto dagli interferoni di tipo I (IFN-I). Queste molecole sono dei segnali d’allarme potentissimi che attivano centinaia di geni antivirali, noti come geni stimolati dall’interferone (ISGs). Pensateli come l’attivazione generale delle difese della cellula. È stato osservato che nei pazienti con COVID-19 grave e critico, questa risposta IFN-I è spesso attenuata o ritardata, contribuendo probabilmente alla gravità della malattia.
Poteva esserci un legame tra l’aumento di CD55 e la riduzione degli ISGs? Abbiamo analizzato i nostri dati scRNA-seq proprio sotto questa luce. Ed ecco la correlazione inversa: nei pazienti gravi e critici, dove vedevamo alti livelli di CD55 nei linfociti T, monociti e linfociti B, osservavamo contemporaneamente bassi livelli di espressione degli ISGs. Al contrario, nei pazienti con malattia lieve, i livelli di CD55 erano più bassi, mentre l’espressione degli ISGs era marcatamente aumentata, come ci si aspetterebbe in una risposta antivirale efficace.
Questa coincidenza era troppo forte per essere ignorata. Sembrava quasi che l’aumento di CD55 stesse attivamente *sopprimendo* la capacità delle cellule immunitarie di rispondere all’allarme degli interferoni. In particolare nei linfociti T, dove l’aumento di CD55 era molto evidente nei pazienti gravi e critici, la riduzione degli ISGs era altrettanto chiara.
La Prova del Nove: Silenziare CD55 Riaccende le Difese
Una correlazione, per quanto forte, non dimostra un rapporto causa-effetto. Per capire se fosse davvero CD55 a “spegnere” la risposta IFN-I, abbiamo fatto un esperimento cruciale in vitro. Abbiamo preso i linfociti T da pazienti con COVID-19 grave, quelli che mostravano alti livelli di CD55 e bassi livelli di ISGs. Usando una tecnica chiamata silenziamento genico con siRNA, abbiamo specificamente “spento” l’espressione del gene CD55 in queste cellule.
Poi, abbiamo stimolato queste cellule T (sia quelle normali, “mock”, sia quelle con CD55 silenziato) con dei pezzetti del virus SARS-CoV-2 (peptidi della proteina Spike e Nucleoproteina). Cosa ci aspettavamo? Se CD55 fosse davvero un soppressore, la sua rimozione avrebbe dovuto permettere alle cellule T di “risvegliarsi” e produrre finalmente gli ISGs in risposta allo stimolo virale.
Ebbene, è successo esattamente questo! Le cellule T dei pazienti gravi, quando non modificate (mock), non riuscivano ad aumentare significativamente l’espressione degli ISGs dopo la stimolazione con i peptidi virali (confermando la loro “paralisi”). Ma le stesse cellule T, dopo il silenziamento di CD55, mostravano un aumento marcato e statisticamente significativo dell’espressione di tutti gli ISGs analizzati (come IFI6, IFI27, IFI44L, ISG15, STAT2) in risposta ai peptidi virali! L’espressione di questi geni difensivi tornava a livelli simili o persino superiori a quelli osservati nelle cellule T di controllo (individui sani esposti a SARS-CoV-2).
Questo esperimento funzionale è stata la conferma che cercavamo: l’aumento di CD55 nei linfociti T dei pazienti COVID-19 gravi non è solo una coincidenza, ma contribuisce attivamente a sopprimere la fondamentale risposta antivirale mediata dagli interferoni di tipo I.
Cosa Significa Tutto Questo? Implicazioni e Prospettive Future
Questa scoperta apre scenari nuovi e importanti. Identifica un meccanismo inedito attraverso cui il COVID-19 potrebbe progredire verso forme più gravi: non solo il virus danneggia direttamente le cellule o scatena una tempesta infiammatoria, ma induce anche l’aumento di una proteina (CD55) che, pur avendo un ruolo protettivo verso il complemento, finisce per sabotare un’altra linea di difesa cruciale, quella degli interferoni.
È un po’ come se, per proteggere la casa da un’inondazione (complemento fuori controllo), si finisse per bloccare le porte antincendio (risposta IFN-I). I nostri dati suggeriscono che questo effetto soppressivo potrebbe avvenire non solo nei linfociti T, ma potenzialmente anche nei monociti e nei linfociti B, dove abbiamo osservato lo stesso pattern di aumento di CD55 e riduzione degli ISGs.
Certo, ci sono ancora domande aperte. Qual è il meccanismo molecolare esatto con cui CD55 blocca la via degli interferoni? Studi precedenti hanno collegato CD55 alla soppressione delle vie dei Toll-like receptor (TLR), che sono importanti per attivare gli IFN-I, quindi questa potrebbe essere una pista. Inoltre, i nostri studi sono stati condotti su un numero limitato di pazienti per l’analisi scRNA-seq, anche se abbiamo validato i risultati su coorti più ampie e in un dataset pubblico. È interessante notare che l’aumento di CD55 è stato osservato in pazienti infettati da diverse varianti di SARS-CoV-2 (Alpha, Delta, Omicron), suggerendo che questo meccanismo possa essere una caratteristica comune della malattia grave, indipendente dalla specifica variante virale.
In conclusione, abbiamo scoperto un ruolo inaspettato e potenzialmente dannoso per la proteina CD55 nella patogenesi del COVID-19 grave. Non è solo un regolatore del complemento, ma sembra agire come un freno molecolare sulla risposta antivirale degli interferoni di tipo I. Questa scoperta non solo ci aiuta a capire meglio perché alcuni pazienti si aggravano, ma potrebbe anche aprire la strada a nuove strategie terapeutiche. Se CD55 contribuisce a “spegnere” le difese, forse potremmo trovare un modo per impedirglielo? La ricerca continua, ma ogni pezzo del puzzle ci avvicina a comprendere e combattere meglio questa malattia complessa.
Fonte: Springer