Ouagadougou: La Fame di Pietra e le Vite Sospese nelle Cave Artigianali
Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio un po’ diverso dal solito, nel cuore pulsante dell’Africa Occidentale, a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Una città che sta crescendo a un ritmo vertiginoso, quasi esplodendo di vita. Ma come ogni medaglia ha il suo rovescio, questa crescita sfrenata ha un prezzo, spesso nascosto e pagato dalle persone più vulnerabili e dall’ambiente. Parliamo della fame insaziabile di materiali da costruzione, in particolare degli aggregati: sabbia, ghiaia e pietrisco.
La Corsa all’Oro… Grigio: Il Boom Edilizio e la Domanda di Aggregati
Sapete, in Burkina Faso, tradizionalmente si costruiva molto con i mattoni di terra cruda, i famosi “adobe”. Ma con l’urbanizzazione galoppante, soprattutto nella capitale, c’è stata una virata decisa verso materiali considerati più moderni e durevoli, come il cemento. E per fare il cemento, servono loro: gli aggregati. Ouagadougou ne ha un bisogno disperato per costruire case, strade, infrastrutture.
Questa domanda viene soddisfatta da un mix di cave: alcune sono meccanizzate, più industriali, ma molte altre sono artigianali, spesso informali. Ho avuto modo di approfondire la situazione, cercando di capire da dove arrivano questi materiali, come vengono estratti e, soprattutto, quali sono le conseguenze per le persone e per l’ambiente.
Abbiamo scoperto che la sabbia, per esempio, arriva prevalentemente da sud, a volte percorrendo distanze incredibili, fino a 165 km! Immaginatevi questi camion carichi che attraversano il paese. Nonostante ciò, il volume annuo stimato, circa 1,8 milioni di metri cubi, è relativamente basso se confrontato con i tassi di urbanizzazione e con quanto si estrae nei paesi vicini. Questo forse perché qui si usano ancora materiali alternativi o perché ci sono tante piccole fonti di sabbia anche dentro la città che sfuggono ai conteggi principali.
Dentro le Cave di Granito: Pissy e Yagma
Ma il cuore della nostra indagine sono state due cave artigianali di granito: Pissy e Yagma. Siti affascinanti e complessi. Pissy, più vicina al centro città, è un buco enorme nel terreno, scavato per decenni. Abbiamo usato droni e fotogrammetria per creare un modello 3D: pensate che da lì sono stati estratti quasi 450.000 metri cubi di granito! Un’alterazione pazzesca del paesaggio. Yagma è un po’ più distante e meno intensiva, ma la dinamica è simile.
Entrambe queste cave erano nate come siti industriali, ma poi sono state abbandonate dalle grandi compagnie e sono diventate il regno dell’estrazione artigianale. E qui entra in gioco l’aspetto umano, quello che più mi ha colpito.
Le Donne della Pietra: Lavoro Duro e Precarietà
Chi lavora in queste cave? Principalmente donne. Quasi l’80% della forza lavoro che abbiamo intervistato erano donne, con un’età media intorno ai 40 anni, ma con storie che vanno dai 18 agli 89 anni. La stragrande maggioranza di loro (l’80%!) non ha ricevuto alcuna istruzione formale. Un dato che fa riflettere, soprattutto se confrontato con gli uomini presenti (che comunque hanno una media bassissima di scolarizzazione, meno di 3 anni). Molte sono sposate, con una media di 4 figli a carico.
Il lavoro è incredibilmente faticoso e segue un processo quasi ancestrale:
- Si inizia bruciando vecchi pneumatici coperti di terra sulle rocce più grandi. Il calore le fa crepare. Un metodo efficace ma, come vedremo, problematico per l’aria.
- Poi, si spaccano manualmente queste rocce incrinate in pezzi più grandi.
- Questi massi vengono trasportati, spesso a mano o con carretti rudimentali, verso la parte alta della cava.
- Qui avviene la frantumazione finale: con una semplice barra di metallo, le donne (sono quasi sempre loro a fare questo lavoro massacrante) riducono i sassi in ghiaia di varie dimensioni. È il compito più comune e faticoso.
- Infine, il materiale viene setacciato e accumulato per la vendita.
Pochissimi si occupano della vendita diretta. È un lavoro parcellizzato, dove la maggior parte delle persone svolge solo una o due mansioni specifiche. E c’è una chiara divisione di genere: le donne frantumano, trasportano e raccolgono sabbia; gli uomini tendono a occuparsi della fase iniziale di spaccatura con il fuoco e del trasporto dei pezzi più grossi.
Un Mondo Sommerso: L’Informalità Regna Sovrana
Quello che colpisce immediatamente è l’altissimo livello di informalità. Qui le regole ufficiali sembrano lontane anni luce:
- Mancanza di regolamentazione: La cava di Pissy, ad esempio, non ha mai avuto un’autorizzazione ufficiale per l’attività artigianale. Anche se ci sarebbero delle normative nazionali, di fatto non vengono applicate. La maggior parte dei lavoratori non percepisce la propria attività come illegale.
- Nessun contratto, nessuna tutela: Si lavora per conto proprio, senza contratti, assicurazioni, ferie pagate o malattia. Le associazioni di lavoratori sono quasi inesistenti o inefficaci. Si lavora tanto: in media 9,3 ore al giorno, 6,2 giorni alla settimana.
- Condizioni pericolose: La sicurezza è un miraggio. Non si usano dispositivi di protezione (caschi, guanti, occhiali). Gli incidenti sono all’ordine del giorno: il 76% degli intervistati ha subito infortuni, spesso colpendosi mani o piedi con gli attrezzi o per schegge di roccia negli occhi. E senza assicurazione sanitaria, chi si fa male ricorre alla medicina tradizionale.
- Vulnerabilità economica: Si lavora alla giornata, pagati in contanti. La redditività, soprattutto per chi frantuma la roccia, è bassissima. A Pissy, il guadagno medio giornaliero per questo lavoro è sotto la soglia di povertà nazionale del Burkina Faso. Immaginatevi poi con le fluttuazioni del mercato e le difficoltà stagionali (la stagione delle piogge rende il lavoro più duro e pericoloso). Molti non hanno altre fonti di reddito.
Nonostante tutto, quando chiedi quali sono gli aspetti positivi, la risposta più comune (72%) è semplice e potente: “questo lavoro ci permette di soddisfare i bisogni primari“. Per molti, significa poter mandare i figli a scuola.
L’Aria che Respiriamo: Impatti Ambientali e Incertezze Future
E l’ambiente? Beh, la prima cosa che salta all’occhio, o meglio, al naso, è il fumo prodotto dalla combustione dei pneumatici per spaccare le rocce. È la principale preoccupazione ambientale citata dai lavoratori stessi e dalla comunità circostante.
Le nostre misurazioni della qualità dell’aria hanno confermato i timori, soprattutto a Pissy. Abbiamo trovato livelli significativamente elevati di particolato (PM1, PM2.5, PM10), quelle polveri sottili così dannose per la salute respiratoria e cardiovascolare. A Yagma la situazione è meno grave, ma comunque presente. È chiaro che lavorare e vivere vicino a queste cave ha un costo in termini di salute.
Il futuro? È avvolto nell’incertezza. A Pissy, essendo su terreno militare, la minaccia di chiusura è costante (e infatti, ci sono state chiusure improvvise nel 2024, dopo la nostra indagine). Molti lavoratori aspirano a trovare un altro impiego, a garantire un futuro migliore ai figli, a vivere in pace. Ma la realtà è complessa. L’insicurezza in altre parti del paese spinge sempre più persone verso la capitale, aumentando la concorrenza anche per questi lavori precari. La pandemia ha peggiorato le cose, facendo chiudere piccole imprese e spingendo altri verso le cave.
Cosa Fare? Riflessioni Finali
È facile puntare il dito e chiedere la chiusura di queste cave per motivi ambientali e sanitari. Ma sarebbe una soluzione troppo semplicistica, che non tiene conto della realtà di migliaia di persone che dipendono da questo lavoro per sopravvivere. Chiudere Pissy significherebbe spostare il problema altrove, perché la domanda di granito non scomparirebbe, e peggiorare le condizioni economiche di chi già vive ai margini.
Credo che la strada da percorrere sia più complessa. Nell’immediato, bisogna migliorare le condizioni di lavoro: fornire equipaggiamento protettivo adeguato e formare i lavoratori su come usarlo, magari investire in piccoli strumenti meccanizzati (come martelli frantumatori mobili) per ridurre la fatica e i rischi.
A lungo termine, se si decidesse per una chiusura, questa dovrebbe essere accompagnata da piani di transizione seri: microcrediti, formazione professionale in altri settori, supporto per trovare alternative sostenibili.
La storia delle cave di Ouagadougou è un potente promemoria di come la crescita urbana possa avere dinamiche socio-ecologiche intricate e spesso dolorose. È una storia di resilienza, di fatica, di impatti ambientali, ma soprattutto di persone che lottano ogni giorno per un’esistenza dignitosa. Ignorarla o semplificarla non serve a nessuno. Serve invece comprensione, azione mirata e politiche che mettano al centro la salute e il benessere delle persone, senza dimenticare la sostenibilità ambientale.
Fonte: Springer