Cancro al Seno ER+: Svelato il Segreto della Risposta ai Farmaci con FOXO3 e FOXM1!
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa di affascinante che sta emergendo nel campo della ricerca sul cancro al seno, in particolare quello positivo ai recettori per gli estrogeni (ER+). Sapete, questo tipo di tumore è piuttosto comune, ma le terapie non funzionano sempre allo stesso modo per tutte. Ci siamo chiesti: perché? E la risposta, come spesso accade nella biologia, è complessa ma incredibilmente interessante e coinvolge un’intricata danza molecolare.
Il bersaglio: la via di segnalazione PI3K-AKT
Al centro della nostra storia c’è una via di segnalazione cellulare chiamata PI3K-AKT. Immaginatela come una catena di comando all’interno della cellula che ne regola crescita, proliferazione e sopravvivenza. Nel 30-40% dei tumori al seno ER+ avanzati, troviamo mutazioni nel gene PIK3CA, che codifica per una parte fondamentale di questa via (la proteina PI3Kα). Queste mutazioni sono come un interruttore bloccato su “ON”, che spinge le cellule tumorali a crescere senza controllo.
Logico pensare: se blocchiamo questa via iperattiva, possiamo fermare il tumore? Esatto! E infatti esistono farmaci progettati proprio per questo. Uno è l’alpelisib, che inibisce specificamente PI3Kα, e un altro è il capivasertib, che blocca il passaggio successivo nella catena di comando, la proteina AKT. Entrambi, in combinazione con terapie anti-estrogeniche come il fulvestrant, hanno mostrato benefici nelle pazienti con queste alterazioni.
Il “guastafeste”: PTEN entra in scena
Ma c’è un “ma”. La situazione non è così semplice. Oltre a PIK3CA, un altro gene gioca un ruolo cruciale: PTEN. PTEN è un “guardiano” del genoma, un soppressore tumorale che normalmente frena la via PI3K-AKT. Cosa succede se PTEN viene perso o funziona male? Beh, la via PI3K-AKT si attiva ancora di più, anche attraverso altre isoforme di PI3K (come la PI3Kβ).
Abbiamo analizzato diversi database di pazienti (come METABRIC, TCGA, TEMPUS) e i dati di uno studio clinico recente (CAPItello 291) e abbiamo scoperto una cosa importante: una percentuale non trascurabile di tumori al seno ER+ con mutazioni in PIK3CA presenta *anche* alterazioni in PTEN. Si parla del 3-9% con perdita completa di entrambe le copie del gene (delezione omozigote) o mutazioni inattivanti, ma la frequenza sale notevolmente (18-25%) se consideriamo anche la perdita di una sola copia (delezione emizigote), che può comunque ridurre la sua funzione di “freno”. Questa co-occorrenza è più comune di quanto si pensasse!

Perdita di PTEN: un problema per Alpelisib, meno per Capivasertib
Questa scoperta ha implicazioni terapeutiche enormi. Abbiamo testato i nostri farmaci su modelli preclinici (cellule in coltura, organoidi derivati da tumori di pazienti – PDXO, e tumori trapiantati in topi – PDX) che mimano la situazione delle pazienti: alcuni con solo la mutazione PIK3CA, altri con la mutazione PIK3CA e diversi livelli di perdita di PTEN (da parziale a totale).
I risultati sono stati chiari:
- Nei modelli con PIK3CA mutato ma PTEN funzionante, sia alpelisib (anti-PI3Kα) che capivasertib (anti-AKT) funzionavano bene nel bloccare la crescita tumorale.
- Nei modelli con PIK3CA mutato E con PTEN ridotto o assente, l’efficacia di alpelisib diminuiva significativamente, sia da solo che in combinazione con fulvestrant.
- Sorprendentemente, capivasertib manteneva la sua efficacia anche in presenza di alterazioni di PTEN, riducendo la crescita tumorale in modo robusto, specialmente in combinazione con fulvestrant.
Questo suggerisce che bloccare AKT (con capivasertib) potrebbe essere una strategia più efficace quando la funzione di PTEN è compromessa, perché bypassa il problema dell’attivazione di altre vie a monte.
I veri registi: FOXO3 e FOXM1
Ma perché capivasertib funziona ancora? Qui entrano in gioco due attori chiave a valle della via PI3K-AKT: i fattori di trascrizione FOXO3 e FOXM1. Pensateli come due interruttori che controllano l’espressione di geni importanti per il ciclo cellulare.
Normalmente, AKT attivo tiene FOXO3 “prigioniero” nel citoplasma della cellula, impedendogli di entrare nel nucleo e fare il suo lavoro. Uno dei compiti di FOXO3 nel nucleo è quello di *reprimere* l’espressione di FOXM1. FOXM1, al contrario di FOXO3, è un potente promotore della proliferazione cellulare (un oncogene).
Cosa succede quando trattiamo le cellule con capivasertib?
- Blocchiamo AKT.
- FOXO3 non è più “trattenuto” e migra nel nucleo.
- Nel nucleo, FOXO3 spegne l’interruttore di FOXM1.
- La riduzione di FOXM1 contribuisce a fermare la proliferazione delle cellule tumorali.
Abbiamo visualizzato questo processo direttamente nelle cellule: dopo trattamento con capivasertib, vedevamo FOXO3 accumularsi nel nucleo e i livelli di proteina FOXM1 diminuire drasticamente. Questo non accadeva (o accadeva molto meno) con alpelisib nelle cellule con PTEN compromesso, dove FOXM1 rimaneva alto.

La prova del nove: manipolare FOXO3 e FOXM1
Per essere sicuri che questo asse FOXO3-FOXM1 fosse davvero cruciale, abbiamo fatto degli esperimenti “genetici”. Usando la tecnologia CRISPR-Cas9, abbiamo eliminato il gene FOXO3 (FOXO3-KO) o FOXM1 (FOXM1-KO) nelle nostre cellule tumorali (quelle con PIK3CA mutato e PTEN assente).
I risultati sono stati illuminanti:
- Eliminando FOXO3, abbiamo visto che i livelli di FOXM1 aumentavano (confermando che FOXO3 lo reprime). Cosa più importante, queste cellule diventavano resistenti a capivasertib! Senza FOXO3 che reprime FOXM1, il farmaco perdeva gran parte della sua efficacia anti-proliferativa, anche in combinazione con fulvestrant.
- Eliminando FOXM1 nelle cellule resistenti ad alpelisib (a causa della perdita di PTEN), abbiamo visto che queste cellule diventavano di nuovo sensibili ad alpelisib! Questo conferma che FOXM1 alto è un meccanismo di resistenza a questo farmaco.
- Abbiamo anche fatto l’opposto: abbiamo sovraespresso FOXM1 (cioè ne abbiamo prodotto di più artificialmente) nelle cellule. Come previsto, questo ha ridotto l’efficacia di capivasertib.
Quindi, l’efficacia di capivasertib dipende strettamente dalla sua capacità di attivare FOXO3 (facendolo andare nel nucleo) e, di conseguenza, di ridurre i livelli di FOXM1. Se FOXO3 manca o se FOXM1 è artificialmente alto, il gioco si blocca.
Resistenza a lungo termine e implicazioni future
Abbiamo anche studiato cosa succede quando le cellule tumorali vengono esposte a capivasertib per lungo tempo (mesi). Abbiamo generato delle linee cellulari “tolleranti” o “resistenti” al farmaco. Indovinate un po’? Queste cellule resistenti mostravano livelli di proteina FOXM1 molto più alti rispetto alle cellule originali! E se in queste cellule resistenti andavamo a ridurre FOXM1, la loro crescita in presenza di capivasertib rallentava di nuovo.

Che significa tutto questo? Significa che l’asse AKT-FOXO3-FOXM1 è un meccanismo fondamentale che determina la sensibilità o la resistenza agli inibitori di AKT come capivasertib nel cancro al seno ER+ con alterazioni di PIK3CA, indipendentemente dallo stato di PTEN.
- La perdita di funzione di FOXO3 emerge come un potenziale meccanismo di resistenza a capivasertib.
- La riduzione dei livelli di FOXM1 potrebbe essere un biomarcatore utile per monitorare se il trattamento sta funzionando efficacemente.
Questi risultati non solo ci aiutano a capire meglio come funzionano questi farmaci, ma aprono anche la strada a strategie terapeutiche più mirate. Potremmo, ad esempio, selezionare meglio le pazienti che beneficeranno maggiormente da capivasertib, monitorare la risposta al trattamento misurando FOXM1, o persino pensare a terapie future che mirino direttamente a FOXM1 nei casi di resistenza.
È un campo in continua evoluzione, ma ogni passo avanti nella comprensione di questi meccanismi complessi ci avvicina a terapie più efficaci e personalizzate per combattere il cancro al seno. Continuate a seguirci per scoprire i prossimi sviluppi!
Fonte: Springer
