Caccia all’Armadillo e Lebbra: Un Legame Pericoloso Nascosto nelle Foreste Tropicali!
Amici lettori, mettetevi comodi perché oggi vi porto in un viaggio un po’ insolito, tra foreste lussureggianti e questioni di salute pubblica che, vi assicuro, toccano corde molto profonde. Parleremo di un animale simpatico, l’armadillo, e di una malattia antica e temuta, la lebbra. Cosa c’entrano l’uno con l’altra? Beh, più di quanto si pensasse, e quello che abbiamo scoperto potrebbe davvero farvi riflettere.
La pandemia di COVID-19 ci ha sbattuto in faccia una realtà ineludibile: dobbiamo monitorare da vicino i rischi di emergenza di nuove malattie, specialmente quelle che passano dagli animali all’uomo, le cosiddette zoonosi. Ebbene, la lebbra, o morbo di Hansen, non è una novità, anzi. È una malattia che affligge l’umanità da millenni, ma che ancora oggi rappresenta una sfida sanitaria in molte parti del mondo, soprattutto nelle regioni tropicali e subtropicali. Pensate che solo nel 2022 sono stati segnalati oltre 174.000 nuovi casi in 128 paesi! India, Brasile e Indonesia da sole contano quasi l’80% del totale globale. Nonostante questi numeri, la lebbra è classificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una malattia tropicale negletta, legata a doppio filo con la povertà, la malnutrizione e le difficoltà di accesso alle cure.
La Trasmissione Classica e i Sospetti Zoonotici
Sappiamo bene che la lebbra si trasmette principalmente da uomo a uomo, attraverso le goccioline respiratorie di persone infette e non trattate, specialmente quelle con la forma multibacillare della malattia, che hanno una carica batterica più alta. Il batterio responsabile è il Mycobacterium leprae. Fin qui, tutto (relativamente) chiaro. Ma già dall’inizio del XX secolo si sospettava che potessero esserci anche altre fonti ambientali.
L’OMS, nella sua strategia globale contro la lebbra per il 2021-2030, riconosce che è stata dimostrata una trasmissione zoonotica di M. leprae attraverso il contatto con gli armadilli, mammiferi dell’ordine Cingulata. Finora, però, questo rischio era considerato basso e molto localizzato. Ecco, è proprio qui che entra in gioco il nostro studio, perché recenti ricerche, comprese le nostre, suggeriscono che l’esposizione agli armadilli potrebbe essere associata a un rischio d’infezione significativamente più elevato. Insomma, questi animaletti potrebbero giocare un ruolo ben più importante di quanto immaginato.
Diversi studi caso-controllo condotti negli Stati Uniti, in Brasile e in Colombia mostrano costantemente una forte associazione tra il contatto diretto con armadilli selvatici e un aumentato rischio di contrarre la lebbra, specialmente tra cacciatori e consumatori di questi animali. In Brasile, dove la caccia all’armadillo è diffusa e la lebbra è una preoccupazione costante, si rilevano circa 28.000 nuovi casi all’anno. E chi caccia, prepara e consuma armadilli ha quasi il doppio del rischio di ammalarsi rispetto a chi non ha contatti diretti.
Mentre negli USA la lebbra è ufficialmente riconosciuta come una zoonosi (nonostante non sia un paese endemico), in Brasile l’attenzione si è concentrata principalmente sulla trasmissione interumana, trascurando un po’ il potenziale contributo delle vie zoonotiche. Questo, capite bene, complica lo sviluppo di interventi mirati ed efficaci.
Il Nostro Studio: Un Approccio Patogeografico in Brasile
Ecco perché abbiamo deciso di vederci chiaro, usando un approccio di “ecologia della malattia” e modelli patogeografici. Abbiamo preso il Brasile come caso di studio rappresentativo per le Americhe tropicali, data la sua vasta estensione geografica e l’alta incidenza della malattia. Il nostro obiettivo? Valutare in modo completo come la caccia all’armadillo e le pratiche associate possano contribuire alla trasmissione della lebbra nell’uomo.
Abbiamo analizzato dati impressionanti: 326.001 casi di lebbra umana segnalati in Brasile tra il 2013 e il 2022. Abbiamo raccolto informazioni su 554 armadilli cacciati in 175 municipalità e sulla prevalenza di M. leprae in 376 armadilli provenienti da 97 municipalità (con una prevalenza media del 38,5%!). Un lavoraccio, ve lo assicuro, ma necessario per costruire modelli spaziali che valutassero il rischio d’infezione legato alla caccia. Questo rischio è stato poi integrato come variabile in un modello statistico più ampio, insieme a predittori socioeconomici, climatici e ambientali, per capire il loro effetto sulla prevalenza della lebbra umana.

Ci siamo concentrati su due gruppi di armadilli: l’armadillo a sei fasce (Euphractus sexcinctus) e gli armadilli dal naso lungo (genere Dasypus), perché sono gli unici per cui è stata documentata la presenza del batterio (a parte una recente singola rilevazione in Cabassous tatouay).
Cosa Influenza la Caccia e l’Infezione negli Armadilli?
Dalle nostre analisi è emerso che i fattori chiave che predicono la caccia all’armadillo includono una maggiore densità di popolazione umana (più persone, più cacciatori, ha senso, no?) e, udite udite, una maggiore disponibilità di armi da fuoco. Per gli armadilli del genere Dasypus, anche una minore densità stradale e pendii più dolci favorivano la caccia.
E per quanto riguarda l’infezione negli armadilli? Qui le cose si fanno ancora più interessanti. Abbiamo scoperto una correlazione negativa con la copertura di habitat nativo. In pratica, il degrado ambientale sembra amplificare il rischio d’infezione negli armadilli. Meno foresta intatta, più armadilli malati. Altri fattori associati a una maggiore prevalenza del batterio negli armadilli includevano una vegetazione rada e temperature medie annuali e massime del mese più caldo più elevate. Le aree con un mosaico di vegetazione naturale e coltivazioni, invece, mostravano una prevalenza inferiore.
Il Rischio Caccia-Armadillo e la Lebbra Umana: Un Legame Forte
Ora, il pezzo forte. Abbiamo creato una variabile che chiamiamo “rischio d’infezione da caccia all’armadillo”, combinando i modelli di caccia all’armadillo e quelli sulla probabilità che un armadillo sia infetto. Ebbene, questa variabile è emersa come il secondo più forte predittore della prevalenza della lebbra umana! Secondo i nostri calcoli, questo fattore è responsabile di circa il 25% dei casi a livello nazionale e addirittura del 40% negli hotspot di deforestazione. Numeri che fanno riflettere, non trovate?
Altri fattori positivamente associati a una maggiore prevalenza di lebbra umana includevano una maggiore stagionalità delle precipitazioni e la malnutrizione. Al contrario, una maggiore densità di popolazione umana (paradossalmente, anche se favorisce la caccia, in contesti più ampi potrebbe significare migliore accesso a diagnosi e cure, o diverse abitudini), una maggiore copertura di habitat naturale e uno status socioeconomico più elevato erano collegati a una ridotta prevalenza della malattia.
Le aree più a rischio per gli esseri umani? Secondo i nostri modelli predittivi, municipalità negli stati di Mato Grosso, Tocantins e Pará potrebbero vedere circa 15 casi di lebbra ogni 10.000 abitanti. Le regioni della Foresta Atlantica e del Cerrado, invece, sembravano meno a rischio.

È emerso chiaramente che la caccia all’armadillo gioca un ruolo molto più significativo nella trasmissione della lebbra umana di quanto si pensasse in precedenza. Particolarmente critica è la situazione nel cosiddetto “arco della deforestazione” amazzonico, che comprende stati come Rondônia, Mato Grosso, Pará e Maranhão. Qui, il contatto con armadilli infetti attraverso la caccia potrebbe contribuire fino al 40% dei casi di lebbra umana. Questo è probabilmente dovuto a una combinazione letale di alta attività venatoria, tassi elevati di deforestazione e un gran numero di armadilli infetti.
Implicazioni e Raccomandazioni: Cosa Possiamo Fare?
Questi risultati, amici miei, sono un campanello d’allarme. Indicano che la caccia all’armadillo è un fattore di rischio chiave e sembra avere un ruolo molto più sostanziale nella trasmissione della lebbra umana nelle Americhe tropicali di quanto si credesse. Abbiamo identificato specifiche regioni come hotspot, e questo potrebbe valere anche per altre aree tropicali del continente.
Certo, il nostro studio si basa su dati aggregati a livello municipale, il che è ottimo per vedere i pattern su larga scala, ma non può risolvere le eterogeneità locali o le fluttuazioni temporali. Servirebbero dati ad alta risoluzione spaziale e osservazioni longitudinali per affinare ulteriormente i modelli, ma al momento questi dati scarseggiano.
Il nostro modello sul rischio di lebbra negli umani sottolinea il ruolo critico dei fattori ambientali e socioeconomici. La stagionalità delle piogge, specifici tipi di vegetazione, una minore densità di popolazione umana (che può significare isolamento, più contatto uomo-uomo prolungato, ridotto accesso alle cure e maggiore dipendenza dalla fauna selvatica) e habitat alterati contribuiscono all’emergenza di nuovi casi. La deforestazione e la conversione dei terreni possono aumentare l’esposizione umana a serbatoi selvatici infetti, portando le comunità a un contatto più stretto con questi animali.
La caccia e il consumo di armadilli sono diffusi in Brasile e in altre parti delle Americhe tropicali, spesso legati all’insicurezza alimentare o alla caccia ricreativa. Il nostro studio si è concentrato principalmente sulla caccia sportiva illegale, il che potrebbe sottostimare le aree dove avviene la caccia di sussistenza. Tuttavia, ricerche precedenti indicano che le specie cacciate sono simili in entrambi i casi. È fondamentale considerare che la caccia di sussistenza aumenta il contatto uomo-fauna selvatica e può accrescere il rischio di lebbra e altre zoonosi.
Pensate che a livello globale, nelle regioni tropicali di Sud America, Africa Sub-Sahariana e Asia meridionale e sud-orientale, circa 150 milioni di famiglie dipendono dalla carne selvatica come fonte primaria di proteine. Nelle regioni del nord del Brasile, all’interno dell’Amazzonia, dove i tassi di malnutrizione sono alti e l’accesso all’assistenza sanitaria è limitato, abbiamo riscontrato una percentuale particolarmente elevata di lebbra umana attribuibile alla caccia all’armadillo. Queste aree dovrebbero essere considerate hotspot critici per ulteriori ricerche e interventi mirati.
È interessante notare che anche altri mammiferi sono stati identificati come potenziali serbatoi di M. leprae. Studi recenti hanno trovato il batterio in opossum e alcuni roditori. Addirittura, uno studio su armadilli investiti ha trovato M. leprae nel 42% degli individui campionati, inclusa la prima rilevazione nell’armadillo a coda nuda maggiore (Cabassous tatouay). Più di recente, ricercatori hanno identificato M. leprae in diverse specie di mammiferi in una regione iperendemica del Brasile, comprese specie comunemente cacciate come cervi e capibara. Anche se il nostro studio si concentra su specie specifiche di armadillo, questi risultati evidenziano l’importanza di considerare una gamma più ampia di potenziali ospiti cacciati.

La presenza di DNA di M. leprae in campioni di suolo e acqua provenienti da regioni endemiche complica ulteriormente la comprensione delle vie di trasmissione, suggerendo che altri serbatoi ambientali potrebbero contribuire alle infezioni umane. Dato il lungo periodo di incubazione della lebbra, tracciare il momento e il meccanismo esatto dell’infezione rimane difficile.
Nonostante gli sforzi del Brasile per controllare la lebbra, la malattia rimane iperendemica nelle regioni del Nord e del Centro-Ovest e altamente endemica nel Nord-Est. La limitata comprensione dei meccanismi di spillover zoonotico solleva preoccupazioni per epidemie latenti. I nostri risultati supportano l’idea che i disturbi ambientali, come il degrado dell’habitat e la caccia eccessiva, siano collegati allo spillover di patogeni. Abbiamo visto che la prevalenza della lebbra, sia negli armadilli che negli esseri umani, è inferiore nelle regioni con una maggiore copertura di habitat naturale e che i tassi di lebbra sono significativamente più alti in aree con grave degrado ambientale, come l'”arco della deforestazione” alla frontiera Cerrado-Amazzonia. In queste regioni deforestate, le grandi specie solitamente cacciate sono estinte o scarse, rendendo i mammiferi più piccoli come gli armadilli un bersaglio alternativo, amplificando i rischi di trasmissione zoonotica.
Cosa fare, dunque? La strategia globale dell’OMS contro la lebbra (2021–2030) richiede lo sviluppo di tabelle di marcia integrate e specifiche per paese per raggiungere un mondo libero dalla lebbra, elencando i serbatoi zoonotici come uno degli argomenti di ricerca di importanza chiave. Dati i nostri risultati, che mostrano un sostanziale potenziale di trasmissione zoonotica, concentrarsi unicamente sulla trasmissione da uomo a uomo potrebbe non essere sufficiente per controllare la malattia.
Servono interventi più efficaci per ridurre le attività di caccia all’armadillo ove possibile e migliorare le strategie di comunicazione sanitaria per aumentare la consapevolezza dei rischi zoonotici e promuovere misure di sicurezza adeguate durante la caccia, la manipolazione e il consumo di armadilli. Sono necessari anche studi genetici per collegare direttamente i ceppi di M. leprae nei serbatoi selvatici alle infezioni umane in Brasile. Preservare gli habitat naturali sarà cruciale per ridurre l’esposizione umana alle malattie zoonotiche emergenti e prevenire future epidemie.
Questo studio, amici, sottolinea l’urgente necessità di interventi di sanità pubblica mirati e di una ricerca continua sui fattori ecologici e socioeconomici che guidano la trasmissione della lebbra in Brasile e nelle Americhe in generale. Rafforza anche il campo dell’ecologia delle malattie, approfondendo la nostra comprensione delle complesse interazioni tra l’uso della fauna selvatica, i cambiamenti ambientali e l’emergenza di malattie zoonotiche. Sebbene la lebbra rimanga curabile, gli effetti sinergici del degrado ambientale, delle pratiche di caccia illegali, insostenibili e non sicure, e dello spillover zoonotico rappresentano una crescente minaccia per la salute pubblica, che necessita di sorveglianza e misure politiche costanti per salvaguardare le popolazioni umane vulnerabili e prevenire future epidemie. È una sfida complessa, ma conoscerla è il primo passo per affrontarla.
Fonte: Springer
