Eroi Stremati: Viaggio nel Cuore del Burnout Infermieristico Egiziano ai Tempi del COVID-19
Amici, diciamocelo chiaramente: la pandemia di COVID-19 ci ha messi tutti a dura prova. Ma c’è una categoria che più di altre ha sentito il peso di questa emergenza sulle proprie spalle, lavorando in prima linea, spesso in condizioni estreme: gli infermieri. Oggi voglio parlarvi di uno studio che mi ha particolarmente toccato, una ricerca condotta in Egitto che ha acceso i riflettori su un problema tanto diffuso quanto, a volte, sottovalutato: il burnout tra il personale infermieristico negli ospedali di isolamento COVID-19. E, credetemi, i risultati fanno riflettere.
Ma cos’è esattamente questo “burnout”?
Prima di addentrarci nei dettagli dello studio, facciamo un passo indietro. Il burnout non è semplicemente “essere stressati”. La psicologa Christina Maslach, una pioniera in questo campo, lo descrive come una sindrome psicologica che emerge come risposta prolungata a stress interpersonali cronici sul posto di lavoro. Non è classificata come una condizione medica, ma come un “fenomeno occupazionale” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si manifesta principalmente attraverso tre dimensioni chiave, che sono poi quelle misurate dal famoso Maslach Burnout Inventory (MBI):
- Esaurimento Emotivo (EE): la sensazione di essere svuotati, prosciugati delle proprie risorse emotive. Immaginate di dover dare, dare, dare supporto emotivo ai pazienti, giorno dopo giorno, senza riuscire a ricaricare le batterie.
- Depersonalizzazione (DP): uno sviluppo di un atteggiamento cinico, distaccato, quasi indifferente nei confronti del proprio lavoro e, soprattutto, delle persone che si assistono. È come se si erigesse un muro per proteggersi.
- Ridotta Realizzazione Personale (PA): la sensazione di incompetenza, di non riuscire più a fare bene il proprio lavoro, con una conseguente caduta dell’autostima professionale.
La professione infermieristica, con i suoi carichi di lavoro pesanti, la pressione temporale, gli orari lunghi e il contatto continuo con la sofferenza, è da sempre considerata ad alto rischio di burnout. E la pandemia, come vedremo, ha solo peggiorato le cose.
Lo studio egiziano: uno sguardo da vicino
Torniamo ora alla ricerca egiziana, uno studio trasversale condotto tra aprile e agosto 2022 su 385 infermieri che lavoravano in due ospedali di isolamento COVID-19 ad Alessandria d’Egitto. Hanno usato un questionario che includeva dati sociodemografici, fattori legati al lavoro e la versione araba del Maslach Burnout Inventory-Human Services Survey (MBI-HSS). E i risultati, ve lo dico subito, sono piuttosto allarmanti.
Pronti? Ben l’82,3% degli infermieri intervistati ha mostrato alti livelli di esaurimento emotivo. Avete letto bene, più di 8 su 10 si sentivano emotivamente prosciugati. Il punteggio medio per l’EE era di 35,43 su un massimo di 54.
Passiamo alla depersonalizzazione: il 60,8% ha riportato alti livelli di DP, con un punteggio medio di 13,63 su 30. Questo significa che quasi due terzi degli infermieri stavano sviluppando quel distacco cinico di cui parlavamo.
E la realizzazione personale? Qui la scala è invertita (un punteggio basso indica scarsa realizzazione). Il 34,5% ha mostrato un basso livello di realizzazione personale, con un punteggio medio di 33,70 (dove un punteggio ≤ 31 è considerato alto, e ≥ 39 basso, quindi un punteggio medio di 33.70 indica una tendenza verso una ridotta realizzazione).
Questi numeri sono significativamente più alti rispetto a studi pre-pandemici in Egitto, dove, ad esempio, nel 2016 si parlava di un 32,6% di infermieri con alto burnout. Durante la crisi COVID, altri studi egiziani avevano già segnalato un aumento, con l’86% che riportava alto EE nel 2020 in un ospedale universitario. Lavorare in ospedali designati COVID-19, come quelli dello studio, esponeva il personale a un rischio ancora maggiore.
Chi è più a rischio? I fattori che pesano
Lo studio non si è limitato a fotografare la situazione, ma ha cercato di capire quali fattori fossero associati a questo dilagante burnout. E qui emergono dati interessanti, alcuni forse controintuitivi.
- Non avere figli: Sembra strano, vero? Uno penserebbe che avere figli aggiunga stress. Invece, gli infermieri senza figli avevano una probabilità significativamente più alta (quasi 4 volte tanto!) di sperimentare un elevato esaurimento emotivo e più del doppio di probabilità di alta depersonalizzazione. Gli autori ipotizzano che avere figli possa essere associato a un’età più matura (che a sua volta mostrava una correlazione negativa col burnout) o che i genitori possano sviluppare migliori strategie di coping. Forse, aggiungo io, avere una famiglia a cui tornare dà una prospettiva diversa, un “perché” più forte fuori dal lavoro.
- Livello di istruzione più elevato: Gli infermieri con lauree o studi post-laurea avevano maggiori probabilità di soffrire di esaurimento emotivo. Questo potrebbe essere legato a maggiori responsabilità, maggiori ambizioni o forse una maggiore consapevolezza delle criticità del sistema.
- Percezione di un numero inadeguato di medici: Questo è un punto cruciale. Quando gli infermieri sentivano che non c’erano abbastanza medici nelle loro unità, le probabilità di alto esaurimento emotivo e alta depersonalizzazione schizzavano alle stelle (rispettivamente 3,25 e 2,2 volte maggiori). Questo segnala un carico di lavoro eccessivo, una possibile sensazione di non essere supportati adeguatamente nelle decisioni cliniche e una maggiore pressione.
Altri fattori sociodemografici come l’età più giovane, essere single, un reddito percepito come insufficiente e un minor numero di anni di esperienza lavorativa erano anch’essi associati a livelli più alti nelle varie dimensioni del burnout. Ad esempio, gli uomini mostravano un esaurimento emotivo medio più alto delle donne, e chi era sposato tendeva ad avere livelli più bassi di EE e DP.
L’ambiente di lavoro: un campo minato
Non si tratta solo di chi sei, ma anche di dove e come lavori. Lo studio ha evidenziato come alcune caratteristiche dell’ambiente lavorativo fossero micidiali:
- Ruolo assistenziale diretto vs. manageriale: Gli infermieri con ruoli manageriali o di supervisione mostravano significativamente meno EE e DP, e una maggiore realizzazione personale. Chi è in trincea, a diretto contatto con i pazienti COVID-19, pagava il prezzo più alto in termini di esaurimento emotivo.
- Turni di lavoro: Lavorare su turni diversi da quello mattutino, specialmente i turni notturni, era associato a punteggi di burnout più alti. I turni mattutini, al contrario, sembravano predittivi di un minor esaurimento emotivo. La notte, si sa, sconvolge i ritmi circadiani e può acuire il senso di isolamento.
- Reparto di servizio: Gli infermieri dei reparti di degenza ordinaria e ambulatoriali mostravano una maggiore probabilità di alta depersonalizzazione rispetto a quelli delle unità di terapia intensiva. Forse per carichi di lavoro diversi o dinamiche di team differenti.
- Sicurezza e DPI: La percezione di un’inadeguata dotazione di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) e di servizi di sicurezza insufficienti era, come prevedibile, associata a maggiore esaurimento emotivo e depersonalizzazione. La paura del contagio e la sensazione di non essere protetti sono stressor potentissimi.
Pensateci: la paura di contrarre il COVID-19 e di trasmetterlo ai propri familiari, il lutto per i pazienti persi, l’indossare DPI per ore, la carenza di riposo… un cocktail esplosivo.
Cosa possiamo imparare e, soprattutto, cosa possiamo fare?
Questo studio egiziano, pur con i suoi limiti (è uno studio trasversale, quindi non può stabilire causalità, e si è concentrato su due soli ospedali), ci lancia un messaggio forte e chiaro: il burnout tra gli infermieri durante la pandemia ha raggiunto livelli critici, e non possiamo permetterci di ignorarlo.
Le raccomandazioni degli autori vanno dritte al punto:
- Supporto Psicologico e Formazione: È fondamentale fornire agli infermieri training specifici per la gestione dello stress e servizi di supporto psicologico accessibili. Non basta dire “siate resilienti”, bisogna dare gli strumenti per farlo.
- Servizi Sociali di Supporto: Aiutare gli infermieri a conciliare i massacranti orari di lavoro con la vita familiare può fare una grande differenza.
- Interventi Organizzativi: Le autorità amministrative devono prendere sul serio i fattori lavorativi. Rivedere il numero di medici, migliorare i servizi di sicurezza, garantire DPI adeguati, sviluppare procedure per i turni che assicurino personale sufficiente e rotazioni regolari, oltre a riposi adeguati.
- Coinvolgimento nelle Decisioni: Sentirsi parte del processo decisionale e avere un certo controllo sul proprio lavoro può offrire una forma di protezione contro il burnout.
Insomma, la lezione che ci arriva da Alessandria d’Egitto è universale. Prenderci cura di chi si prende cura di noi non è solo un atto di giustizia, ma una necessità strategica per la tenuta dei nostri sistemi sanitari. Questi “eroi stremati” meritano tutta la nostra attenzione e il nostro impegno concreto. Perché se crollano loro, crolla una colonna portante della nostra salute.
Fonte: Springer