Donne BIPOC nell’Accademia Farmaceutica: Una Scintilla di Benessere Contro l’Invisibilità
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, purtroppo, spesso rimane nell’ombra: il benessere delle donne docenti appartenenti a minoranze etniche e razziali (BIPOC) nel mondo accademico, in particolare nelle scienze farmaceutiche. Sappiamo bene che l’università può essere un ambiente competitivo e stressante per chiunque, ma per alcune categorie di persone le sfide si moltiplicano, diventando quasi invisibili agli occhi dei più.
L’Esercito Invisibile: Sottorappresentazione e Iniquità Sistemiche
Immaginatevi di entrare in un’aula universitaria o in un laboratorio di ricerca e notare che le persone che vi somigliano sono davvero poche. Questa è la realtà per molte donne BIPOC nelle discipline biomediche e nell’istruzione superiore in generale. I numeri parlano chiaro: secondo statistiche del 2021, solo il 12% del corpo docente totale negli Stati Uniti è composto da donne BIPOC. Se guardiamo specificamente al settore farmaceutico accademico tra il 2023 e il 2024, questa percentuale sale leggermente al 14%, ma rimane comunque ben al di sotto della rappresentanza nella popolazione generale (circa il 20.7%).
Questa sottorappresentazione non è casuale, ma è spesso il risultato di fallimenti sistemici: processi di assunzione e promozione non equi, differenze salariali ingiustificate, e un carico sproporzionato di impegni legati a iniziative di diversità, equità e inclusione (DEI). Questi compiti, seppur importantissimi, sottraggono tempo prezioso alla didattica e alla ricerca, fondamentali per la progressione di carriera. Pensate anche alle microaggressioni durante i colloqui, alla mancanza di accesso a formazione post-laurea o a un solido mentorship. È come affrontare una corsa ad ostacoli con un peso extra sulle spalle, una “doppia difficoltà” come la definisce uno studio del 2024, che colpisce in modo particolare le donne appartenenti a minoranze razziali.
Tutto ciò contribuisce a creare un cocktail micidiale di isolamento, mancanza di modelli di riferimento e scarso supporto. Le conseguenze? Un impatto negativo sulla produttività, sulla progressione di carriera e, non da ultimo, sul benessere psicofisico. Si parla di “racial fatigue”, stress cronico e burnout, che possono portare a una minore soddisfazione lavorativa e a un maggior rischio di abbandono della professione accademica. È fondamentale capire che, sebbene le donne BIPOC non siano un gruppo monolitico e abbiano esperienze diverse, esistono vissuti collettivi in ambito accademico che necessitano di attenzione urgente.
Una Luce in Fondo al Tunnel? Lo Studio Pilota sul Benessere
Di fronte a questo quadro, un gruppo di ricercatori ha deciso di non restare a guardare. Hanno avviato uno studio pilota per valutare l’impatto percepito di un programma di benessere longitudinale specificamente pensato per docenti donne BIPOC nelle facoltà di farmacia e scienze farmaceutiche. L’obiettivo primario era capire come un intervento mirato potesse influenzare il loro benessere, il burnout e l’autoefficacia.
Lo studio ha coinvolto due coorti di docenti a tempo pieno, identificate come donne BIPOC, provenienti da diverse istituzioni prevalentemente bianche (PWI) negli Stati Uniti. La prima coorte ha partecipato a un programma di due anni, mentre la seconda per un anno. Il programma, chiamato “Well-Being Initiative”, si basava su un approccio triplice:
- Connessione: attraverso conferenze virtuali e in presenza.
- Coaching: sessioni individuali di wellness coaching.
- Comunità: facilitando la comunicazione e il networking tramite una piattaforma online.
Il curriculum era strutturato in quattro unità tematiche esplorate durante conferenze trimestrali: Rinnovare (cura di sé e leadership), Ristabilire (autenticità e auto-promozione), Resettare (resilienza e capacità negoziali) e Rimettere a fuoco (definizione degli obiettivi e negoziazione di ruoli avanzati). Un programma bello intenso, no?

Per misurare l’impatto, sono stati utilizzati diversi strumenti: questionari a risposta aperta per raccogliere le percezioni dirette, e scale validate come il General Well-Being Index (WBI), il Maslach Areas of Worklife Survey (AWS), due item del Maslach Burnout Index-Human Services Survey (MBI-HSS) e il General Self-Efficacy Survey (GSES).
Cosa Hanno Detto le Partecipanti? Un Coro di Voci Positive
Ebbene, i risultati qualitativi, quelli che emergono dalle parole delle dirette interessate, sono stati davvero incoraggianti! Entrambe le coorti hanno riportato un impatto positivo sul loro benessere e, soprattutto, un forte senso di comunità generato dal programma. Questo è un punto cruciale. Immaginate cosa significhi, dopo anni di potenziale isolamento, trovare uno spazio sicuro dove essere autentiche, condividere esperienze con colleghe che capiscono veramente le vostre sfide, e imparare da chi è più avanti nel percorso professionale.
Una partecipante ha detto: “[Il programma] ha avuto un impatto assolutamente e incredibilmente positivo sul mio benessere! Il modo in cui siamo riuscite a connetterci… costruire una comunità con altre donne con esperienze condivise, spazi sicuri per essere trasparenti… essere in grado di portare tutta me stessa autentica al lavoro.” Un’altra ha sottolineato come il programma le abbia dato “un senso di comunità, appartenenza, supporto e conforto che sapevo esistesse là fuori ma che non avevo avuto l’opportunità di sviluppare da sola.”
Le sessioni sulla creazione di piani di cura personale, sul mantenimento dei valori fondamentali, e quelle sulla resilienza e negoziazione sono state tra le più apprezzate. Le partecipanti hanno sentito di aver ricevuto il “permesso” di riposare e la consapevolezza che, alla fine, prospereranno grazie a questo. Le strategie che si sentivano più propense ad applicare in futuro includevano la prioritizzazione, la negoziazione e l’auto-promozione, ma anche il bisogno di “reset” fisico e di continuare a costruire comunità.
Numeri che Parlano (con Cautela)
Passiamo ora ai dati quantitativi, ricordandoci sempre che si tratta di uno studio pilota e quindi i risultati vanno interpretati come stime preliminari. Comunque, anche qui si sono visti segnali positivi. Il punteggio mediano del WBI (benessere personale) è diminuito dopo l’intervento per entrambe le coorti, indicando un miglioramento. La percentuale di partecipanti a rischio di scarso benessere è scesa significativamente, specialmente nella seconda coorte (una diminuzione del 61 punti percentuali!).
Anche il rischio di burnout è diminuito: la percentuale di persone a rischio di burnout totale è passata dal 64% al 40% nella Coorte 1 e dal 61% al 33% nella Coorte 2. Un calo notevole, se pensiamo che i tassi di burnout basali in questo campione erano più alti rispetto a studi precedenti su docenti di farmacia in generale. Questo suggerisce che le donne BIPOC potrebbero essere particolarmente vulnerabili, ma anche che interventi mirati possono fare la differenza.
Per quanto riguarda il benessere professionale (misurato con l’AWS), la Coorte 1 ha visto miglioramenti in 5 delle 6 sottoscale (carico di lavoro, controllo, ricompensa, comunità e valori). La Coorte 2 ha mostrato miglioramenti simili per comunità, ricompensa e valori, ma un calo per equità e carico di lavoro. Questo potrebbe dipendere dal fatto che la Coorte 2 aveva una percentuale maggiore di assistenti professori, spesso più esposti a carichi di lavoro pesanti e minore autonomia.
L’autoefficacia (la fiducia nelle proprie capacità) è leggermente migliorata nella Coorte 2, passando da un punteggio mediano di 30 a 34 (su una scala da 10 a 40). Questo è importante perché l’autoefficacia è legata a un minor rischio di burnout e a migliori prestazioni lavorative.

Lezioni Apprese e Prospettive Future
Certo, lo studio ha i suoi limiti: il campione era piccolo, il che riduce la generalizzabilità dei risultati. Inoltre, non c’era un gruppo di controllo, quindi non possiamo stabilire nessi causali definitivi. C’è anche il potenziale bias di autoselezione: chi ha partecipato potrebbe essere già particolarmente interessato al tema del benessere. Tuttavia, le lezioni apprese sono preziose.
Per esempio, per reclutare partecipanti è fondamentale riconoscere quanto siano oberate di impegni. L’incoraggiamento da parte dei vertici istituzionali è cruciale. Mantenere l’impegno e la partecipazione in un programma di 1-2 anni è una sfida, ma identificare un pubblico con obiettivi e bisogni comuni aiuta. La flessibilità è un’altra chiave: offrire formati diversi (online, in presenza) e adattare il programma in base ai feedback può fare la differenza. Infine, dedicare tempo durante le sessioni del programma per compilare i questionari sul benessere potrebbe migliorare i tassi di risposta, che in questo studio sono stati bassi.
Questo studio pilota rappresenta un primo passo promettente. Ha dimostrato che un programma longitudinale focalizzato su connessione, coaching e comunità può avere un impatto percepito positivo sul benessere delle donne docenti BIPOC. I risultati, seppur preliminari, suggeriscono che tali iniziative possono aiutare a sviluppare competenze per migliorare il benessere personale e professionale, e a contrastare quel senso di isolamento che troppo spesso le caratterizza.
Personalmente, trovo che studi come questo siano fondamentali. Non solo accendono un faro su una problematica spesso ignorata, ma offrono anche soluzioni concrete e speranza. C’è ancora molta strada da fare, ma sapere che si stanno sperimentando strategie innovative per supportare queste “forze lavoro invisibili” è un segnale importante. La ricerca futura dovrà esplorare la fattibilità e la scalabilità di programmi simili in coorti più ampie e con follow-up a lungo termine. Perché investire nel benessere di tutti i docenti, specialmente di quelli più vulnerabili, significa investire nella qualità e nella sostenibilità dell’intero sistema accademico.
Fonte: Springer
