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Giovani Atleti e Ferite Nascoste: Quando le Emozioni Fanno Male (Specie in Iran)

Amici, parliamoci chiaro. Quando pensiamo agli adolescenti atleti, spesso ci vengono in mente immagini di energia, successo, salute fisica smagliante. Ma dietro le medaglie e gli applausi, a volte si nasconde un mondo interiore complesso, fatto di pressioni, aspettative e, purtroppo, anche di sofferenza. Oggi voglio portarvi con me in un viaggio un po’ scomodo ma necessario, per esplorare un tema delicato: l’autolesionismo non suicidario (NSSI) tra i giovani atleti, con un focus particolare su uno studio recente condotto in Iran. Perché sì, anche i campioni in erba possono sanguinare, non solo sul campo di gioco.

L’autolesionismo è un comportamento che, ve lo dico subito, non ha nulla a che fare con il desiderio di togliersi la vita. È piuttosto un modo, per quanto disfunzionale e pericoloso, di gestire emozioni travolgenti, un grido d’aiuto silenzioso quando le parole non bastano o sembrano inutili. E gli adolescenti, con il loro cervello ancora in piena evoluzione e un’emotività spesso a fior di pelle, sono particolarmente vulnerabili.

Ma cos’è esattamente l’autolesionismo non suicidario (NSSI)?

In parole povere, l’NSSI descrive azioni intenzionali di autoinfliggersi ferite senza l’intento di morire. Pensate a tagli, graffi, colpirsi, bruciarsi. Forme diverse, ma con un comune denominatore: un tentativo di far fronte a un dolore interiore che sembra insopportabile. È interessante notare, come sottolinea lo studio, che mentre a livello globale le forme sono simili, fattori culturali possono influenzare i metodi scelti. Ad esempio, in Iran, alcuni gesti potrebbero essere più stigmatizzati di altri. E c’è anche una differenza di genere: le ragazze tendono più a tagliarsi o graffiarsi, i ragazzi a colpirsi. Ma, come sempre, queste sono tendenze, non regole assolute, e c’è bisogno di più ricerca specifica per il contesto iraniano.

La prevalenza globale dell’NSSI tra gli adolescenti è un campanello d’allarme. Parliamo di cifre che, a seconda degli studi e delle metodologie, possono variare parecchio, ma che indicano un problema diffuso. Alcune ricerche recenti hanno riportato tassi superiori al 50% per almeno un episodio di autolesionismo in adolescenti e giovani adulti transgender e non binari, probabilmente a causa di stress specifici come la vittimizzazione. Anche in Iran, gli studi mostrano una forbice ampia, dal 4.3% al 40.5%, a seconda del campione e degli strumenti usati. Ma attenzione: questi dati potrebbero non essere direttamente applicabili ai giovani atleti iraniani, che affrontano pressioni fisiche e psicologiche uniche legate allo sport agonistico, come l’ansia da prestazione e gli infortuni.

Lo studio iraniano: uno sguardo da vicino

Ed è qui che entra in gioco la ricerca che ha ispirato questo nostro approfondimento, pubblicata su BMC Psychiatry. Lo studio si è posto l’obiettivo di capire quanto fosse diffuso l’NSSI tra gli adolescenti atleti a Teheran e, soprattutto, di indagare il ruolo della regolazione emotiva in questi comportamenti. Hanno partecipato 456 atleti, tra i 13 e i 18 anni (età media 14.66 anni), di cui il 40.1% ragazze e il 59.9% ragazzi. Questi giovani campioni hanno compilato questionari specifici per misurare i comportamenti autolesionistici e le loro strategie di regolazione emotiva, sia cognitive che comportamentali.

Cosa significa “regolazione emotiva”? È la nostra capacità di gestire le emozioni, di non farci travolgere. Può essere cognitiva (come rivalutiamo una situazione, se ci auto-incolpiamo o catastrofizziamo, oppure se riusciamo a vedere le cose da un’altra prospettiva, a pianificare, ad accettare) o comportamentale (come cerchiamo supporto sociale, come affrontiamo attivamente un problema, se ci ritiriamo, cerchiamo distrazioni o ignoriamo la situazione). Inutile dire che alcune di queste strategie sono più sane di altre!

Un giovane atleta adolescente, forse un ginnasta, seduto da solo sul pavimento di una palestra vuota, testa bassa, illuminato da un singolo fascio di luce proveniente da una finestra alta. L'ambiente è in penombra, accentuando il senso di isolamento e pressione. Obiettivo prime da 35mm, stile film noir con forti contrasti, duotone blu e grigio per enfatizzare la freddezza emotiva.

I risultati: numeri che fanno riflettere

Ebbene, i risultati dello studio sono, come dire, piuttosto eloquenti e un po’ preoccupanti. È emersa una prevalenza significativa di autolesionismo tra questi giovani atleti. Il punteggio medio per l’autolesionismo era di 109.27 (su una scala specifica), indicando un livello relativamente alto. Un numero consistente di partecipanti ha riferito di mettere in atto comportamenti autolesionistici legati alla regolazione delle emozioni (81 partecipanti hanno risposto “Spesso”). Tra le motivazioni, la ricerca di sensazioni forti (“sensation seeking”, 221 “Spesso”) e il dimostrare potere o resistenza (201 “Spesso”) erano le più frequenti.

Ma il dato forse più cruciale è la forte correlazione negativa trovata tra autolesionismo e regolazione emotiva, sia cognitiva (r= -0.64) che comportamentale (r= -0.73). Tradotto: peggiori erano le capacità di regolare le proprie emozioni, più alti erano i livelli di autolesionismo. E non è tutto: l’analisi di regressione ha mostrato che la regolazione emotiva (sia cognitiva che comportamentale) spiegava ben il 42% della varianza nell’autolesionismo. In particolare, la regolazione emotiva comportamentale è emersa come un predittore più forte rispetto a quella cognitiva.

Questo significa che le difficoltà nel gestire le emozioni in modo sano, sia a livello di pensieri che di azioni, sono strettamente legate al rischio di farsi del male. È come se, non sapendo come affrontare un’ondata emotiva troppo forte, l’unico modo per sentirsi meglio, o per sentire qualcosa di diverso dal dolore interiore, fosse infliggersi un dolore fisico.

Perché succede? Il ruolo cruciale della regolazione emotiva

L’adolescenza è già di per sé un periodo turbolento. Se ci aggiungiamo le pressioni dello sport agonistico – l’ansia da prestazione, la paura di fallire, il confronto con gli altri, la gestione degli infortuni, l’immagine corporea – capiamo bene come il carico emotivo possa diventare pesantissimo. Lo studio evidenzia come l’ambiente sportivo competitivo possa creare ulteriori pressioni che aumentano il rischio di processi psicologici non sani.

La letteratura scientifica, inclusi modelli come quello dell’evitamento esperienziale o il modello cognitivo-emotivo dell’autolesionismo, sottolinea proprio questo: le difficoltà nella regolazione emotiva sono centrali. Se un giovane atleta si sente sopraffatto, se non riesce a tollerare l’angoscia, e magari crede di non poter resistere all’impulso di farsi del male (e si aspetta un qualche sollievo da questo gesto), la probabilità di ricorrere all’autolesionismo aumenta. È un circolo vizioso: mi sento male, non so come gestire questa emozione, mi faccio del male per sentirmi (momentaneamente) meglio, ma poi il problema di fondo rimane, anzi, si aggiunge il peso del gesto compiuto.

Un aspetto interessante emerso è che l’autolesionismo potrebbe anche compromettere ulteriormente la regolazione emotiva. Chi si fa del male spesso teme che, se scoperto, questo possa danneggiare le relazioni con allenatori, compagni di squadra e famiglia, portando a un ulteriore isolamento e a una minore capacità di cercare aiuto e regolare le emozioni in modo sano.

Dettaglio macro di gocce di sudore sulla fronte tesa di un giovane atleta durante una competizione intensa. L'espressione è concentrata ma tradisce una forte pressione emotiva. Lente macro da 100mm, alta definizione, illuminazione controllata per esaltare la texture della pelle e la tensione muscolare.

Cosa possiamo fare? Interventi e speranza

La buona notizia è che, se capiamo i meccanismi, possiamo intervenire. E questo studio ci dà indicazioni preziose. Se la difficoltà nella regolazione emotiva è così centrale, allora è lì che bisogna lavorare. Gli interventi mirati a migliorare le strategie di regolazione emotiva, sia cognitive che comportamentali, potrebbero essere davvero benefici per ridurre l’NSSI in questa popolazione.

Pensiamo a programmi che insegnino ai giovani atleti a:

  • Riconoscere le proprie emozioni.
  • Comprendere cosa le scatena.
  • Sviluppare strategie cognitive più adattive (es. ristrutturazione cognitiva, problem solving, auto-compassione invece di auto-critica).
  • Implementare comportamenti più sani per gestire lo stress (es. cercare supporto sociale, tecniche di rilassamento, attività piacevoli che non siano dannose).

È fondamentale anche il ruolo dell’ambiente sportivo. Allenatori e compagni di squadra possono fare la differenza. Creare un clima di fiducia, comunicazione aperta e supporto può essere un fattore protettivo enorme. Programmi educativi che inquadrino l’autolesionismo come una strategia disadattiva di regolazione emotiva potrebbero aumentare la comprensione da parte di allenatori e compagni, facilitando un supporto più efficace per gli adolescenti che lottano con emozioni come paura o tristezza. E non dimentichiamo l’importanza del self-care anche per gli allenatori stessi!

Certo, lo studio ha i suoi limiti, come tutti gli studi. È stato condotto in un contesto culturale specifico (Teheran, Iran), quindi i risultati potrebbero non essere generalizzabili a tutti gli adolescenti atleti del mondo. Inoltre, è uno studio trasversale, il che significa che osserva una situazione in un dato momento, ma non può stabilire nessi di causa-effetto definitivi. Servirebbero studi longitudinali per capire meglio come queste dinamiche si evolvono nel tempo.

Nonostante ciò, il messaggio è forte e chiaro: l’autolesionismo tra i giovani atleti è una realtà, e la capacità di gestire le proprie emozioni gioca un ruolo chiave. Dobbiamo smettere di pensare che chi fa sport sia immune dalla sofferenza psicologica. Anzi, a volte le pressioni possono essere persino maggiori.

In conclusione, questa ricerca iraniana ci offre uno spaccato importante e ci ricorda che dietro ogni atleta c’è una persona, con le sue fragilità e il suo bisogno di essere compresa e supportata. Investire nella salute mentale dei nostri giovani, atleti e non, insegnando loro a navigare il mare tempestoso delle emozioni, non è solo un atto di cura, ma una necessità per costruire un futuro più sano per tutti.

Fonte: Springer

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