Immagine concettuale di un cervello umano con ingranaggi luminosi che rappresentano le funzioni cognitive, in particolare l'attenzione, con un cuore stilizzato sullo sfondo che simboleggia il post-infarto. Obiettivo da 35mm, duotone blu e grigio, profondità di campo.

Infarto e Cervello: L’Attenzione è la Prima a Cedere? La Nostra Mente Sotto Lente!

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore, e che, credetemi, tocca più persone di quanto immaginiamo. Sapete, quando si parla di infarto miocardico, la prima cosa che ci viene in mente è, ovviamente, il cuore. Ci preoccupiamo della sua ripresa, delle terapie, dello stile di vita da cambiare. Ma c’è un altro organo, altrettanto vitale, che può risentire di questo evento traumatico: il nostro cervello. E in particolare, una sua funzione fondamentale: l’attenzione.

Una scoperta che ci ha fatto riflettere

Recentemente, abbiamo condotto uno studio prospettico multicentrico (un nome un po’ altisonante, lo so, ma significa che abbiamo seguito tanti pazienti in diversi ospedali per un certo periodo) proprio per capire meglio cosa succede alle capacità cognitive di chi ha avuto un infarto. Abbiamo coinvolto ben 326 pazienti, valutandoli sia subito dopo l’evento (nel periodo peri-infartuale, per essere precisi) sia a distanza di 6 mesi. Per farlo, abbiamo usato due strumenti molto conosciuti dagli addetti ai lavori: il Mini-Mental State Examination (MMSE) e il Clock Drawing Test (CDT), il famoso “test dell’orologio”.

Quello che è emerso è davvero interessante e, per certi versi, sorprendente. Non tutti i pazienti reagiscono allo stesso modo, e soprattutto, la situazione può cambiare nel tempo.

Quattro “squadre” di pazienti: chi migliora, chi peggiora e chi resta stabile

Analizzando i dati dell’MMSE, abbiamo potuto dividere i nostri partecipanti in quattro gruppi distinti:

  • Gruppo 1 (8.9%): Pazienti che presentavano un deficit cognitivo (CI) sia subito dopo l’infarto sia a 6 mesi di distanza. Una sorta di “deficit persistente”.
  • Gruppo 2 (16.3%): Pazienti con deficit cognitivo solo nel periodo immediatamente successivo all’infarto, ma che poi, a 6 mesi, erano migliorati. Una buona notizia!
  • Gruppo 3 (7.7%): Pazienti che, al contrario, stavano bene subito dopo l’infarto, ma hanno sviluppato un deficit cognitivo nei 6 mesi successivi. Un campanello d’allarme.
  • Gruppo 4 (67.1%): I più fortunati, quelli che non hanno mostrato deficit cognitivi in nessuna delle due valutazioni.

Risultati simili, anche se con percentuali leggermente diverse, li abbiamo ottenuti usando il Clock Drawing Test. Questo ci dice che il problema è reale e merita attenzione.

Il vero protagonista (o antagonista?): il calo dell’attenzione

Ma la vera domanda era: quale specifica funzione cognitiva viene colpita? E qui arriva il bello, o meglio, la scoperta cruciale. Abbiamo notato che nei pazienti il cui stato cognitivo generale migliorava (quelli del gruppo 2, per intenderci) o peggiorava (quelli del gruppo 3), si verificavano cambiamenti analoghi proprio nella funzione attentiva.
In pratica, nel gruppo di pazienti che aveva un deficit solo subito dopo l’infarto (gruppo 2), l’81% ha mostrato anche un miglioramento dell’attenzione. E, cosa ancora più netta, tra i pazienti che hanno sviluppato un deficit solo dopo 6 mesi (gruppo 3), il 100% ha avuto un peggioramento proprio nell’attenzione!

Questo ci suggerisce che l’attenzione potrebbe essere il dominio cognitivo primario ad essere interessato quando si parla di deterioramento cognitivo post-infarto. È come se fosse la prima sentinella a cadere, o la prima a rialzarsi.
Abbiamo anche osservato che altre funzioni, come la registrazione di nuove informazioni, il linguaggio e le capacità prassiche (cioè la capacità di compiere gesti coordinati), tendevano a rimanere stabili nella maggior parte dei pazienti. L’orientamento e la memoria a breve termine (il “recall”) mostravano variazioni, ma l’attenzione sembrava davvero il filo conduttore.

Un medico con camice bianco, in un ambiente ospedaliero luminoso, esamina con attenzione dei risultati su un tablet, sullo sfondo un grafico stilizzato di un cervello e un cuore interconnessi. Luce controllata, obiettivo da 35mm, profondità di campo per mettere a fuoco il medico.

Fattori di rischio e differenze tra i gruppi

Ci siamo chiesti se ci fossero delle caratteristiche particolari che distinguevano questi gruppi. Ebbene, alcune differenze sono emerse, soprattutto tra chi aveva un deficit persistente (gruppo 1) e chi non ne aveva affatto (gruppo 4).
I pazienti con deficit cognitivo persistente tendevano ad essere più anziani, ad avere parametri peggiori per quanto riguarda i globuli rossi e valori più alti di BNP e troponina (indicatori di un maggior danno al muscolo cardiaco). Inoltre, chi sviluppava un deficit cognitivo solo dopo 6 mesi (gruppo 3) aveva una storia di diabete significativamente più spesso rispetto a chi non aveva deficit.
Un altro dato interessante riguarda l’insonnia: i pazienti con deficit persistente riportavano sintomi di insonnia più severi. Dormire bene, si sa, è fondamentale per il cervello!

Le malattie cardiovascolari e la demenza, purtroppo, condividono diversi fattori di rischio, come l’aterosclerosi. Non sorprende quindi che una coronaropatia possa aumentare il rischio di deficit cognitivo. Il problema è che spesso questi deficit non vengono diagnosticati, lasciando i pazienti più vulnerabili e meno capaci di seguire le terapie post-infarto, con conseguenze negative sugli esiti del trattamento.

Due test sono meglio di uno? Non sempre, e vi spiego perché

Una cosa che ci ha incuriosito è stata la discordanza, in alcuni casi, tra i risultati dell’MMSE e del Clock Drawing Test. C’era una fetta di pazienti (circa il 12% subito dopo l’infarto e l’11% a 6 mesi) che risultava avere un deficit all’MMSE ma eseguiva correttamente il test dell’orologio. E cosa abbiamo scoperto analizzando più a fondo questi casi? Che i pazienti con un CDT normale ma con deficit all’MMSE avevano, guarda caso, una funzione attentiva compromessa.

Il CDT è ottimo per valutare le funzioni visuo-spaziali ed esecutive, legate ai lobi frontali e temporo-parietali, aree per cui l’MMSE potrebbe essere meno sensibile. Quindi, usare entrambi i test potrebbe sembrare la soluzione ideale per una valutazione completa. Ma sappiamo bene che nella pratica clinica quotidiana, soprattutto per un cardiologo, il tempo è tiranno. Serve qualcosa di rapido ed efficace.

Una scorciatoia per i medici: Test dell’Orologio e “sottrazione magica”

E qui arriva la proposta, forse la parte più pratica del nostro studio. Visto che l’attenzione sembra essere il nodo cruciale, e che emerge anche quando il CDT è normale ma l’MMSE segnala un problema, abbiamo pensato: e se bastasse eseguire il Clock Drawing Test e utilizzare solo la componente dell’MMSE che valuta l’attenzione (quella in cui si chiede al paziente di sottrarre 7 da 100, e poi ancora 7 dal risultato, e così via)?
Questo approccio combinato ma “snello” potrebbe essere sufficiente per una prima valutazione dei pazienti dopo un infarto. Permetterebbe di identificare rapidamente chi è a rischio, risparmiando tempo prezioso durante la visita, per poi indirizzare i casi sospetti a uno specialista, come un neurologo o uno psicologo, per approfondimenti.

Primo piano di una mano anziana che disegna con fatica un orologio su un foglio bianco (Clock Drawing Test), con un medico che osserva con empatia. Dettaglio elevato sulla mano e sul disegno, obiettivo macro da 60mm, illuminazione soffusa ma precisa.

Perché è così importante scovare questi deficit?

Un deficit cognitivo, anche lieve, può compromettere significativamente la vita quotidiana. Pensateci: un calo dell’attenzione, specialmente in un paziente che ha appena avuto un infarto, può tradursi in difficoltà a concentrarsi durante le spiegazioni del medico su terapie e cambiamenti dello stile di vita post-dimissione. La conseguenza? Una peggiore aderenza alle raccomandazioni mediche, e quindi un recupero meno efficace.
Purtroppo, valutare la funzione cognitiva dopo un infarto non è ancora una prassi comune, un po’ per mancanza di tempo, un po’ forse per la scarsa conoscenza di strumenti di screening semplici e veloci da parte dei cardiologi.

Cosa ci resta da scoprire?

Certo, come in ogni ricerca che si rispetti, ci sono dei limiti. Ad esempio, non abbiamo valutato la funzione cognitiva prima dell’infarto, e il nostro campione era composto principalmente da una popolazione caucasica, quindi i risultati andrebbero confermati su popolazioni più ampie e diverse. Inoltre, i pazienti erano relativamente giovani, il che potrebbe aver sottostimato la prevalenza del problema.
Nonostante ciò, crediamo che questo studio apra una finestra importante sulla necessità di prestare più… beh, attenzione… alla salute cognitiva dei pazienti dopo un infarto.

Un messaggio per chiudere (e per aprire gli occhi)

In conclusione, il nostro viaggio nel cervello dei pazienti post-infartuati ci ha mostrato che i deficit cognitivi possono comparire sia subito dopo l’evento che nei mesi successivi. Ma, cosa fondamentale, la funzione cognitiva che sembra subire i cambiamenti più significativi, sia in meglio che in peggio, è proprio l’attenzione.
Il tipo uniforme di deficit cognitivo osservato, insieme ad alcuni fattori di rischio come un maggior danno cardiaco e il diabete, ci fa ipotizzare un’origine comune, probabilmente aterosclerotica, di questi problemi.
La speranza è che strumenti di screening più mirati e rapidi, come la combinazione del test dell’orologio e la valutazione specifica dell’attenzione tramite l’MMSE, possano entrare nella pratica clinica per aiutare i medici a non sottovalutare questo aspetto cruciale del recupero. Perché un cuore sano merita una mente lucida!

Fonte: Springer

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