Artrite Reumatoide e Mortalità: Quando la Bilancia Mente e un Nuovo Indice Svela la Verità
Parliamoci chiaro, l’artrite reumatoide (AR) non è una passeggiata. È una malattia infiammatoria cronica che colpisce le articolazioni, ma le cui conseguenze possono andare ben oltre il dolore e la rigidità. Purtroppo, chi ne soffre sa che può portare a complicanze serie, inclusa una maggiore mortalità, spesso legata a problemi cardiovascolari e, ahimè, anche a tumori.
E qui entra in gioco un fattore che spesso ci confonde: l’obesità. Per anni ci siamo affidati al classico Indice di Massa Corporea (IMC o BMI, che dir si voglia) per capire se il nostro peso fosse nella norma. Ma quando si tratta di AR, le cose si complicano parecchio. Sembra quasi che la bilancia, o meglio, il modo tradizionale di interpretare il suo responso, ci racconti solo una parte della storia, e nemmeno quella più importante.
Recentemente, mi sono imbattuto in uno studio scientifico davvero illuminante, pubblicato su “Lipids in Health and Disease”, che ha messo sotto la lente d’ingrandimento proprio questo legame: come misuriamo il grasso corporeo nei pazienti con AR e come questo si collega al rischio di morire. E, ve lo anticipo, i risultati sono di quelli che fanno riflettere.
Il Limite del Classico IMC nell’Artrite Reumatoide
Sapete, l’AR è una malattia infiammatoria cronica. Questa infiammazione costante non colpisce solo le articolazioni, ma può letteralmente stravolgere il nostro metabolismo e la composizione corporea. Si parla spesso di “cachessia reumatoide“: una condizione insidiosa caratterizzata da perdita di massa muscolare e, contemporaneamente, da un accumulo di grasso, specialmente quello viscerale, cioè quello che si deposita attorno agli organi interni nell’addome. Questo grasso è particolarmente “cattivo” perché è metabolicamente attivo e produce sostanze infiammatorie.
L’IMC, essendo un semplice rapporto tra peso e altezza al quadrato (kg/m²), non riesce a “vedere” questa distribuzione critica del grasso. Una persona con AR potrebbe avere un IMC apparentemente normale, o addirittura basso, ma nascondere al suo interno una quota pericolosa di grasso viscerale e una ridotta massa muscolare. È un po’ come giudicare un libro dalla copertina, senza leggerne il contenuto! Questo spiega perché l’IMC si è dimostrato spesso un predittore poco affidabile del rischio di mortalità in questa popolazione di pazienti.
ABSI: Un Nuovo “Sceriffo” in Città per Misurare il Rischio
Ed è qui che entrano in scena gli “indici di adiposità alternativi“. Lo studio in questione ne ha analizzati diversi, ma uno in particolare ha brillato per la sua capacità predittiva: l’A Body Shape Index (ABSI). Forse non ne avete mai sentito parlare, ma segnatevi questo nome. L’ABSI è una formula un po’ più complessa dell’IMC, perché non si limita a peso e altezza, ma considera anche la circonferenza vita. In pratica, cerca di quantificare la forma del corpo, dando più peso all’adiposità centrale (la “pancetta”, per intenderci) rispetto all’adiposità generale.
Pensatela così: l’ABSI è come avere una mappa più dettagliata del nostro corpo, che evidenzia le zone “calde” di rischio, quelle dove il grasso si accumula in modo più pericoloso. Altri indici presi in esame includevano il Weight-adjusted Waist Index (WWI), il Conicity Index (C-index), il Waist Height Ratio (WHtR), il Body Roundness Index (BRI), e altri ancora. L’idea era proprio quella di trovare uno strumento più preciso dell’IMC.

Lo studio ha utilizzato i dati della National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) raccolti tra il 1999 e il 2018, un’indagine vastissima sulla salute e la nutrizione degli americani. Da un campione enorme di oltre 100.000 persone, i ricercatori hanno identificato 1.266 individui con artrite reumatoide auto-riferita. Per questi pazienti, sono stati calcolati i vari indici di adiposità e poi si è andati a vedere cosa fosse successo nel tempo, fino al 31 dicembre 2019, in termini di mortalità (per tutte le cause, per cause cardiovascolari e per cancro).
Lo Studio NHANES: Numeri che Parlano Chiaro
Ebbene, i risultati sono stati netti! L’ABSI si è dimostrato il “campione” nel predire la mortalità. Utilizzando sofisticate analisi statistiche, tra cui algoritmi di machine learning come l’XGBoost, l’ABSI è emerso come il più forte predittore tra tutti gli indici di obesità valutati. Le curve ROC dipendenti dal tempo (uno strumento statistico per valutare la capacità predittiva) hanno mostrato che l’ABSI era superiore nel predire la mortalità generale a 5, 10 e persino 20 anni, con aree sotto la curva (AUC) rispettivamente di 0.823, 0.801 e 0.752. Valori molto buoni, che indicano una notevole accuratezza.
Anche l’indice C di Harrell, un’altra misura di performance predittiva, ha confermato la superiorità dell’ABSI. Quando i pazienti sono stati divisi in quartili (cioè in quattro gruppi) in base al loro valore di ABSI, quelli nel quartile più alto (Q4, con ABSI maggiore) avevano un rischio di mortalità per tutte le cause significativamente più elevato rispetto a quelli nel quartile più basso (Q1). Le curve di sopravvivenza di Kaplan-Meier, che visualizzano la probabilità di sopravvivenza nel tempo, hanno mostrato chiaramente che chi aveva un ABSI più alto aveva una sopravvivenza marcatamente inferiore (P<0.001).
Per darvi un’idea, nel modello statistico completamente aggiustato (che tiene conto di età, sesso, etnia, fumo, alcol, altre malattie, farmaci, ecc.), i pazienti nel quartile più alto di ABSI avevano un rischio di mortalità generale 3.43 volte superiore rispetto a quelli nel quartile più basso. Un dato impressionante! Risultati simili, sebbene con associazioni talvolta meno consistenti, sono stati osservati anche per il WWI e il C-index, ma l’ABSI è rimasto il protagonista.
Un altro aspetto interessante emerso dall’analisi con le spline cubiche ristrette (RCS) è stata una relazione a forma di “U” (o meglio, una curva che sale rapidamente) tra ABSI e mortalità, soprattutto per la mortalità generale. Questo suggerisce che, sebbene il rischio aumenti drasticamente con valori elevati di ABSI, anche valori estremamente bassi potrebbero non essere ottimali, sebbene il pericolo maggiore sia chiaramente all’estremità superiore della scala.
Il Ruolo Chiave dell’Infiammazione
Ma perché l’ABSI è così bravo a predire questo rischio? Lo studio non si è fermato alla semplice associazione, ma ha cercato di capire i meccanismi sottostanti. E qui, ancora una volta, torna in campo l’infiammazione. I ricercatori hanno ipotizzato che i marcatori infiammatori potessero giocare un ruolo da “mediatori” in questa relazione.
Immaginate una catena di eventi: l’adiposità centrale, ben rappresentata da un ABSI elevato, contribuisce a mantenere uno stato infiammatorio cronico. Questa infiammazione, a sua volta, danneggia l’organismo e aumenta il rischio di eventi avversi, inclusa la morte. L’analisi di mediazione ha confermato questa ipotesi! Marcatori infiammatori come il Monocyte-to-High-Density Lipoprotein Cholesterol Ratio (MHR), il Neutrophil-to-Lymphocyte Ratio (NLR), l’Advanced Lung Cancer Inflammation Index (ALI) e il Systemic Immune-Inflammation Index (SII) sono risultati significativamente coinvolti. Questi marcatori spiegavano una parte (rispettivamente il 4.9%, 5.1%, 8.5% e 4.5%) dell’associazione tra ABSI e mortalità generale. Questo significa che l’infiammazione è una componente importante del perché un alto ABSI sia legato a una prognosi peggiore.
Questi indici infiammatori, derivati da semplici analisi del sangue (come l’emocromo e il profilo lipidico), riflettono lo stato di attivazione del sistema immunitario e l’infiammazione sistemica. Per esempio, un alto NLR indica uno squilibrio tra neutrofili (che aumentano nell’infiammazione acuta e cronica) e linfociti (che possono diminuire in condizioni di stress cronico o infiammatorio). L’MHR, invece, lega l’infiammazione (monociti) al metabolismo lipidico (colesterolo HDL, quello “buono”).

Cosa Significa Tutto Questo per Noi?
Per chi, come me, convive con l’artrite reumatoide, o per i medici che ci seguono, questo studio apre prospettive molto interessanti. Ci dice, innanzitutto, che non basta salire sulla bilancia e calcolare l’IMC. Anzi, potremmo essere tratti in inganno. È fondamentale guardare dove si accumula il grasso.
I medici potrebbero avere a disposizione uno strumento semplice ed economico come l’ABSI (che richiede solo peso, altezza e circonferenza vita) per stratificare meglio il rischio dei loro pazienti con AR. Identificare precocemente chi è a maggior rischio di mortalità permetterebbe di attuare strategie preventive più mirate e aggressive, che potrebbero includere modifiche dello stile di vita, interventi nutrizionali specifici e un monitoraggio più stretto delle comorbidità, specialmente quelle cardiovascolari.
E per noi pazienti? È un invito a essere più consapevoli. A prestare attenzione non solo al numero che vediamo sulla bilancia, ma anche alla nostra forma fisica, in particolare all’eventuale accumulo di grasso addominale. È un motivo in più per discutere apertamente con il nostro reumatologo e il medico di base di questi aspetti, chiedendo magari di monitorare anche indici come l’ABSI. Lo studio suggerisce che mantenere un livello di ABSI relativamente basso potrebbe contribuire a ridurre la mortalità. Questo, ovviamente, va perseguito con strategie salutari, che includano una dieta equilibrata e attività fisica regolare, compatibilmente con lo stato della malattia.
Qualche Cautela è d’Obbligo
Come ogni studio scientifico, anche questo ha i suoi limiti, e gli autori stessi li riconoscono con onestà. Innanzitutto, la diagnosi di AR era auto-riferita, il che potrebbe introdurre qualche imprecisione. Inoltre, la natura dello studio NHANES è osservazionale e trasversale per alcune misurazioni, il che significa che possiamo stabilire associazioni, ma non rapporti diretti di causa-effetto. Non possiamo escludere completamente la presenza di fattori confondenti residui, cioè altre variabili non misurate che potrebbero influenzare i risultati. Infine, il campione, sebbene ampio, era composto principalmente da individui statunitensi, quindi la generalizzabilità ad altre popolazioni andrebbe confermata.
Tuttavia, la robustezza delle analisi, incluse quelle di sensibilità (ad esempio, escludendo i pazienti deceduti nei primi due anni di follow-up, o quelli con malattie cardiovascolari o cancro al basale), e l’uso di tecniche avanzate come l’XGBoost, danno un peso considerevole ai risultati.
In Conclusione: Un Passo Avanti nella Comprensione dell’AR
Insomma, questo studio ci lancia un messaggio forte e chiaro: nel complesso e spesso difficile percorso dell’artrite reumatoide, guardare oltre i soliti parametri può fare una grande differenza, potenzialmente anche salvarci la vita. L’A Body Shape Index (ABSI) emerge come un candidato promettente, uno strumento semplice ma potente, per aiutarci a capire meglio i rischi associati alla distribuzione del grasso corporeo e, speriamo, a gestirli più efficacemente.
Non si tratta di demonizzare il grasso in sé, ma di capire che la sua localizzazione conta, eccome, soprattutto quando c’è di mezzo un’infiammazione cronica come quella dell’AR. Una piccola misurazione in più, quella della circonferenza vita, integrata in un indice come l’ABSI, potrebbe avere un grande impatto sulla nostra salute a lungo termine. Ne parlerò sicuramente al mio prossimo controllo medico, e vi invito a fare altrettanto!
Fonte: Springer
