Muri che gridano: L’arte pubblica che ha plasmato il sit-in di Khartoum nel 2019
Avete mai pensato a come parlano i muri? Non quelli di casa nostra, ovviamente, ma quelli delle città, specialmente durante momenti di grande cambiamento. Io sì, e mi ha sempre affascinato come l’arte pubblica, quella che spunta all’improvviso su una facciata grigia o su una barricata improvvisata, possa diventare la voce di un intero popolo. Oggi voglio portarvi con me a Khartoum, nel cuore del Sudan, durante la rivoluzione del 2018-2019. Immaginatevi un enorme sit-in, proprio davanti al quartier generale militare: un luogo simbolo, carico di tensione, che per mesi è diventato il centro nevralgico della protesta contro il regime. Ebbene, in quel contesto così denso, i muri hanno iniziato letteralmente a parlare, a gridare, a raccontare storie attraverso murales e graffiti.
Quando lo Spazio Urbano Diventa Tela Rivoluzionaria
Il sit-in di Khartoum non era solo un accampamento di protesta; si è trasformato in uno spazio vivo, pulsante, un’arena dove si negoziava il potere, si costruiva identità e si faceva memoria collettiva. E l’arte pubblica è stata una protagonista assoluta di questa trasformazione. Non parliamo di semplici decorazioni, ma di vere e proprie armi pacifiche, strumenti potentissimi di espressione politica e culturale. Pensateci: in un contesto dove i media ufficiali erano controllati o limitati, i muri sono diventati i giornali del popolo, le gallerie d’arte a cielo aperto della rivoluzione.
Gli studiosi parlano di “contro-pubblici” e di “produzione sociale dello spazio”. Sembrano paroloni, ma il concetto è semplice e potente: attraverso l’arte, i manifestanti si sono riappropriati dello spazio urbano, trasformandolo da luogo anonimo o controllato dal potere a spazio di resistenza, di dialogo, di comunità. È come se ogni murale, ogni scritta, dicesse: “Questo spazio è nostro, e qui raccontiamo la nostra verità”. L’arte non era solo uno sfondo, ma un attore che modellava attivamente la geografia stessa della protesta.
Un’Esplosione di Creatività a Lungo Repressa
Questa fioritura artistica non è nata dal nulla. Certo, la rivoluzione del 2018-2019 ha visto un’esplosione senza precedenti, ma affonda le radici in una storia complessa. In Sudan, l’arte pubblica ha sempre avuto un ruolo, anche se spesso carsico o poco documentato. Già nelle rivolte del 1964 e 1985 c’erano canzoni, poesie, poster, ma i murales su larga scala erano rari. Anzi, il regime di al-Bashir, salito al potere nel 1989, aveva attivamente cercato di cancellare la memoria collettiva e l’espressione artistica non allineata, rimuovendo statue, demolendo simboli, rinominando strade. L’arte figurativa, in particolare, era vista con sospetto.
Ma la creatività è come l’acqua, trova sempre una fessura. E quando il controllo statale si è allentato con le proteste di massa, quell’energia repressa è esplosa. Gli artisti, che per anni avevano lavorato in nicchie o forme alternative, si sono riversati nelle strade. Il sit-in è diventato, come ha detto qualcuno, “una fortezza di bellezza e messaggi politici”.

Cosa Dicevano Quei Muri? Le Funzioni dell’Arte nel Sit-in
Ma cosa raccontavano, esattamente, questi muri parlanti? Analizzando decine di opere in diversi punti chiave del sit-in, è emerso un quadro affascinante delle loro funzioni. L’arte serviva a tantissime cose, era un vero e proprio ecosistema comunicativo e sociale:
- Piattaforma di messaggistica: Era il modo più diretto per comunicare slogan rivoluzionari, richieste politiche, messaggi di solidarietà e resistenza pacifica. Un vero e proprio megafono visivo.
- Spazio per la memoria collettiva: Commemorare i martiri della rivoluzione era fondamentale. Volti, nomi, date dipinti sui muri trasformavano lo spazio pubblico in un memoriale vivente, sfidando la narrazione ufficiale e onorando i sacrifici. Pensate al potentissimo “Muro dei Martiri” sui muri dell’Università di Khartoum, continuamente aggiornato.
- Affermazione dell’identità culturale e del patrimonio: L’arte attingeva a simboli della storia sudanese (come le regine nubiane, le Kandakat, simbolo di donne forti), a motivi culturali, riappropriandosi di un’identità nazionale che il regime aveva cercato di appiattire.
- Documentazione della rivoluzione: I murales fungevano da cronaca visiva degli eventi, fissando momenti chiave della lotta.
- Mobilitazione e motivazione: Vedere quei colori, quei messaggi, dava forza ai manifestanti, li motivava a continuare, creava un senso di appartenenza e scopo comune.
- Contro-narrazione: L’arte offriva una versione dei fatti alternativa a quella della propaganda statale, smascherando menzogne e dando voce alle aspirazioni popolari.
- Apprendimento informale ed educazione: Alcune opere spiegavano concetti, raccontavano storie, educavano i cittadini sui loro diritti e sulla storia del paese.
- Coinvolgimento della comunità: Dipingere insieme, discutere davanti a un murale… l’arte diventava un catalizzatore per l’interazione sociale e la partecipazione.
- Orientamento (Wayfinding): In un’area vasta e affollata, alcune opere potevano anche aiutare a orientarsi.
- Intrattenimento e riflessione: L’arte portava bellezza, ironia, spunti di riflessione in un contesto difficile.
Un aspetto potentissimo è stato come l’arte abbia dato visibilità alle donne. Murales che celebravano il ruolo cruciale delle donne nella rivoluzione sfidavano le norme sociali e la loro marginalizzazione politica, rivendicando la loro presenza nello spazio pubblico e nella costruzione del nuovo Sudan.
Non Casuale, Ma Strategica: La Geografia dell’Arte
E non pensate che queste opere spuntassero a caso. Lo studio ha rivelato una chiara logica spaziale. La distribuzione e i temi dei murales variavano a seconda della posizione all’interno del sit-in:
* Agli ingressi e sulle barricate (come Burry Street o l’ingresso Ovest): Qui dominavano i messaggi politici diretti, gli slogan, i simboli di resistenza. Erano le “porte ideologiche” del sit-in, dove l’arte affermava il controllo dello spazio e comunicava la forza del movimento.
* Nelle aree di aggregazione sociale (come vicino all’ospedale universitario o nella centrale Al-Qeyada Street): Qui l’arte si concentrava di più sulla memoria collettiva, sull’identità culturale, sull’educazione informale. Erano luoghi dove si costruiva comunità, si rifletteva, si ricordava. L’arte contribuiva a rendere questi spazi più accoglienti, significativi, quasi permanenti.

Questa distribuzione strategica dimostra come gli artisti e gli attivisti usassero l’arte in modo consapevole per plasmare l’esperienza e la percezione dello spazio del sit-in, adattando i messaggi al contesto specifico di ogni luogo.
Un Fenomeno Globale con Radici Locali
Quello che è successo a Khartoum non è un caso isolato. Si inserisce in una lunga storia di arte come strumento di resistenza e cambiamento sociale in tutto il mondo. Pensiamo ai murales politici in Irlanda del Nord, all’arte durante l’anti-apartheid in Sudafrica, ai graffiti della Primavera Araba in Egitto o del movimento Hirak in Algeria. L’arte di protesta sudanese dialoga con queste esperienze globali, mostrando come la creatività possa diventare un linguaggio universale di lotta per la libertà e la giustizia.
Allo stesso tempo, è profondamente radicata nella storia sudanese. Si ricollega idealmente alla “Scuola di Khartoum” degli anni ’60, un movimento artistico modernista che intrecciava temi culturali sudanesi e panafricani con un forte impegno per la libertà intellettuale. Invocando eroi storici e simboli locali, i muralisti del 2019 hanno consapevolmente legato la loro lotta a una narrazione più profonda di resistenza all’oppressione.
L’Eredità Fragile dei Muri Parlanti
Questa incredibile esplosione artistica ci insegna tantissimo sul potere trasformativo dell’arte negli spazi urbani e nei movimenti sociali. Ha dimostrato che l’arte non è un lusso, ma una necessità, un modo fondamentale per comunicare, ricordare, costruire identità e immaginare futuri diversi. Ha trasformato fisicamente e simbolicamente il sit-in, rendendolo un archivio vivente della rivoluzione.
Purtroppo, come spesso accade con l’arte di protesta, molte di queste opere sono state distrutte o vandalizzate dopo la dispersione violenta del sit-in nel giugno 2019. Questo rende ancora più prezioso il lavoro di documentazione (come l’Archivio Digitale degli Artisti Sudanesi) e sottolinea la fragilità di questa forma d’arte e la necessità di proteggerla.

Quello che mi porto via da questa storia è la straordinaria capacità dell’arte di emergere nei momenti più bui, di dare forma alle speranze collettive e di trasformare i luoghi della protesta in spazi di incredibile forza simbolica e comunitaria. I muri di Khartoum hanno gridato per un po’, e anche se ora molti sono silenziosi o sfregiati, il loro eco risuona ancora, testimoniando il potere indomabile della creatività umana di fronte all’oppressione. È la prova che, a volte, per cambiare il mondo, basta un muro e un po’ di vernice.
Fonte: Springer
