Primo piano di uno smartphone tenuto in mano, lo schermo mostra un'interfaccia utente accattivante di un'app per la salute mentale con grafici di progresso e messaggi motivazionali. Sfondo leggermente sfocato di un ambiente domestico confortevole. Fotografia di ritratto, obiettivo prime 50mm, profondità di campo, illuminazione calda e accogliente.

App per la Mente: Funzionano Davvero? Il Segreto (che Manca) per Farle Restare con Noi

Ragazzi, parliamoci chiaro: le app per la salute mentale sono ormai dappertutto. Promettono di aiutarci con ansia, stress, depressione, e chi più ne ha più ne metta. Ma la domanda sorge spontanea: funzionano davvero? E cosa le rende, beh, “appiccicose”, nel senso buono? Quelle che non disinstalliamo dopo due giorni, insomma. Mi sono imbattuto in una meta-analisi pazzesca, che ha messo insieme i dati di ben 92 studi clinici randomizzati (RCT), coinvolgendo la bellezza di quasi 17.000 persone, per cercare di capirci qualcosa di più. E quello che è emerso è… interessante, per usare un eufemismo.

La Buona Notizia: Le App Possono Aiutare!

Iniziamo dalle cose positive. Lo studio conferma che, in generale, le app per la salute mentale hanno un effetto positivo sui risultati clinici rispetto ai gruppi di controllo (che magari non facevano nulla o seguivano cure standard). L’effetto è considerato di taglia “media” (il famoso Hedges g = 0.43, per i più tecnici tra voi), il che non è affatto male! Sembra che funzionino particolarmente bene per condizioni molto diffuse come:

  • Depressione
  • Ansia
  • Stress
  • Disturbi alimentari e dell’immagine corporea

Questo è un segnale incoraggiante, perché significa che queste tecnologie possono davvero rappresentare un aiuto concreto, magari per rendere il supporto più accessibile, ridurre i costi o gestire le lunghe liste d’attesa che affliggono i servizi tradizionali. Pensateci: un aiuto a portata di smartphone, potenzialmente disponibile 24/7. Non male, no?

Il Design Persuasivo: L’Ingrediente Magico? Forse No.

Ora, uno degli aspetti più affascinanti che i ricercatori hanno voluto indagare è il ruolo del cosiddetto “design persuasivo”. Di che si tratta? In pratica, è l’arte di progettare la tecnologia (in questo caso, le app) in modo da influenzare positivamente i nostri comportamenti e atteggiamenti. Pensate alle notifiche che vi ricordano di fare un esercizio, ai progressi visualizzati che vi motivano, alla personalizzazione dei contenuti. Esiste un intero framework, chiamato Persuasive Systems Design (PSD), con 28 principi diversi divisi in categorie come supporto al compito primario, supporto al dialogo, credibilità del sistema e supporto sociale.

L’idea era: più principi persuasivi usi, più l’app sarà coinvolgente ed efficace, giusto? E invece no. Sorprendentemente, la meta-analisi non ha trovato alcuna associazione significativa tra il numero di principi persuasivi implementati in un’app e la sua efficacia nel migliorare la salute mentale, né tantomeno con il livello di coinvolgimento (engagement) degli utenti. Le app analizzate usavano da 1 a 12 di questi principi (con una media di 5), ma sembra che aggiungerne di più non faccia automaticamente la differenza. Un po’ come aggiungere ingredienti a caso in una ricetta sperando che venga meglio.

Primo piano di uno smartphone tenuto in mano, lo schermo mostra un'interfaccia utente accattivante di un'app per la salute mentale con grafici di progresso e messaggi motivazionali. Sfondo leggermente sfocato di un ambiente domestico confortevole. Fotografia di ritratto, obiettivo prime 50mm, profondità di campo, illuminazione calda e accogliente.

Il Vero Problema: Il Coinvolgimento Fantasma

E qui arriviamo al nodo cruciale: il coinvolgimento (o “engagement”, come dicono gli inglesi). Perché un’app sia efficace, è ovvio che dobbiamo usarla. Ma tenerci incollati allo schermo, soprattutto quando si tratta di lavorare su noi stessi, è una sfida enorme. Lo studio ha rivelato un quadro abbastanza desolante su questo fronte:

  • Mancanza di dati: Ben il 24% degli studi inclusi non riportava alcun dato sul coinvolgimento degli utenti!
  • Caos nelle metriche: Negli studi che lo facevano, sono state identificate ben 25 metriche diverse per misurare l’engagement. C’è chi contava i login, chi i minuti di utilizzo, chi la percentuale di moduli completati, chi si basava sull’autovalutazione degli utenti… un vero Far West!
  • Nessun legame chiaro: A causa di questa enorme variabilità, è stato impossibile stabilire un legame solido tra design persuasivo e coinvolgimento, e persino tra coinvolgimento (per come veniva misurato) ed efficacia.

In pratica, non solo facciamo fatica a creare app che le persone usino costantemente, ma non abbiamo nemmeno un modo standard per misurare *se* e *quanto* le usano. È come cercare di capire se una terapia funziona senza sapere se il paziente si è presentato alle sedute! Studi precedenti citati nella ricerca dipingono un quadro ancora più cupo, con tassi di utilizzo che crollano a meno del 4% dopo appena 15 giorni nel mondo reale.

Perché il Design Persuasivo Sembra Non Bastare?

I ricercatori avanzano diverse ipotesi per spiegare la mancanza di correlazione tra principi persuasivi ed efficacia/engagement:

  • Reporting Inconsistente: Magari i principi c’erano, ma non erano descritti bene negli studi.
  • Codifica Soggettiva: Senza accesso diretto a tutte le app (molte non erano commerciali), i ricercatori hanno dovuto basarsi sulle descrizioni, introducendo inevitabilmente soggettività.
  • Questione di “Quanto”: Un principio applicato superficialmente vale come uno implementato a fondo? Probabilmente no, ma la codifica era binaria (presente/assente).
  • Fattori Esterni: L’estetica generale, il supporto umano (se presente), le caratteristiche dell’utente, la novità… tanti altri elementi possono influenzare l’engagement.
  • Complessità: Forse non è il *numero* di principi a contare, ma la loro *combinazione* specifica per un certo utente o contesto.

È interessante notare che i principi più usati erano quelli legati al guidare l’utente passo passo (“Tunnelling”), al fargli provare esercizi (“Rehearsal”) e a dare un’immagine di affidabilità (“Trustworthiness”). Molto meno usati, invece, gli aspetti sociali come la competizione o la cooperazione.

Visualizzazione astratta di dati frammentati e metriche di coinvolgimento confuse su uno schermo digitale, obiettivo macro 90mm, messa a fuoco precisa su alcuni punti luminosi, sfondo scuro e tecnologico.

Cosa Serve Davvero? Un Appello alla Chiarezza

Questa meta-analisi, pur confermando il potenziale delle app, lancia un messaggio forte e chiaro alla comunità scientifica e agli sviluppatori: dobbiamo fare di meglio. Non basta infarcire le app di funzioni “persuasive” sperando per il meglio. Serve un approccio più strutturato e trasparente. Le raccomandazioni principali sono:

  1. Standardizzare le Metriche di Coinvolgimento: Mettiamoci d’accordo su come misurare l’engagement! Usare metriche comuni (come la percentuale di completamento del programma o dei moduli) renderebbe gli studi confrontabili. Basta con le autovalutazioni poco affidabili se ci sono dati oggettivi.
  2. Report Dettagliati sul Design: Gli sviluppatori e i ricercatori devono descrivere esplicitamente quali principi di design (persuasivo e non) e quali teorie del cambiamento comportamentale hanno usato. Trasparenza, ragazzi!
  3. Collegare Design, Engagement e Cambiamento Reale: Non basta che l’utente usi l’app (“Little e”). L’obiettivo è il cambiamento nel mondo reale (“Big E”). Dobbiamo capire meglio come il design influenzi l’uso, e come l’uso si traduca in veri benefici psicologici, legando il tutto a modelli teorici solidi.
  4. Più Ricerca Mirata: Servono più studi su condizioni meno “popolari” (come psicosi, rischio suicidario, depressione post-partum) dove l’efficacia sembra ancora incerta, e analisi più fini per capire cosa funziona per chi.

Hanno anche identificato alcune feature ricorrenti non presenti nel framework PSD classico, come la “rivelazione graduale” dei contenuti (staged disclosure) o l’impostazione esplicita degli obiettivi, che meriterebbero più attenzione.

Schermata di un'app per la salute mentale ben progettata che mostra progressi e obiettivi chiari su uno smartphone moderno, obiettivo macro 70mm, alta definizione, illuminazione controllata per evidenziare l'interfaccia utente pulita e intuitiva.

In conclusione, il mondo delle app per la salute mentale è pieno di promesse, ma anche di sfide. Questa ricerca ci dice che sì, possono funzionare, ma la chiave non è (solo) nel design “persuasivo” fine a se stesso. La vera sfida è capire cosa spinge le persone a restare, a impegnarsi in un percorso che a volte può essere faticoso. E per capirlo, dobbiamo prima metterci d’accordo su come misurare questo impegno e su come descrivere onestamente cosa mettiamo dentro queste app. Solo così potremo trasformare il potenziale in un impatto reale e duraturo sulla vita delle persone.

Fonte: Springer

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