Api Selvatiche e Pesticidi: La Minaccia Nascosta nel Sottobosco dei Frutteti
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta molto a cuore e che, scommetto, incuriosirà anche voi: le api e i pesticidi. Ma attenzione, non parleremo solo delle superstar, le api da miele (*Apis mellifera*), ma soprattutto delle loro “cugine” selvatiche, le api non-Apis. Queste creature, spesso trascurate, sono fondamentali per l’impollinazione sia delle piante selvatiche che di molte delle nostre colture.
Il problema è che, come le api da miele, anche le api selvatiche sono minacciate dai pesticidi. Capire *come* e *dove* entrano in contatto con queste sostanze è cruciale per proteggerle. E qui le cose si complicano, perché ogni specie ha la sua storia, le sue abitudini, i suoi fiori preferiti. Non possiamo semplicemente pensare che quello che vale per un’ape valga per tutte!
Perché le api non-Apis sono diverse?
Pensateci: le api selvatiche non sono tutte uguali. Hanno cicli vitali differenti, alcune sono solitarie, altre sociali (ma in modo diverso dalle api da miele), usano materiali diversi per costruire i nidi e, soprattutto, hanno preferenze alimentari specifiche.
- Alcune sono polilettiche, come le api da miele, e visitano tanti fiori diversi.
- Altre sono oligolettiche, specializzate su una famiglia o addirittura un genere di piante.
- Il loro modo di interagire con i fiori (dimensioni, lunghezza della lingua) influenza quali piante possono visitare.
- Anche la loro capacità di detossificare i pesticidi può variare: alcune famiglie, come le Megachilidae, sembrano mancare di geni specifici per neutralizzare certi insetticidi.
Tutto questo significa che la loro esposizione ai pesticidi può seguire percorsi molto diversi rispetto alle api da miele. Finora, però, capire esattamente quali fossero questi percorsi è stato un bel rompicapo.
La nostra indagine: un “network” tra api, piante e pesticidi
Per cercare di vederci più chiaro, abbiamo condotto uno studio in una zona agricola molto interessante: i frutteti di ciliegio dolce (*Prunus avium*) in Oregon, circondati da frammenti di savana di quercia bianca, un habitat ricco di biodiversità di api. Volevamo capire quali piante visitassero le api non-Apis e quali di queste piante fossero contaminate da pesticidi.
Come abbiamo fatto? Abbiamo combinato diverse tecniche:
- Abbiamo raccolto campioni di api non-Apis mentre bottinavano sui fiori, sia nei frutteti che nella savana circostante, annotando meticolosamente su quale pianta si trovassero.
- Abbiamo installato delle trappole per polline su alveari di api da miele commerciali presenti nella stessa area. Perché le api da miele? Perché sono ottime “campionatrici” dell’ambiente: raccolgono polline da una vasta area e da molte specie di piante diverse.
- Abbiamo analizzato il polline raccolto dalle api da miele: prima identificando al microscopio da quali generi di piante provenisse, poi misurando i residui di pesticidi presenti in quel polline.
- Infine, abbiamo incrociato i dati: abbiamo collegato le visite delle api non-Apis a una specifica pianta con i dati sulla contaminazione da pesticidi del polline di quella stessa pianta (raccolto dalle api da miele nello stesso periodo e luogo).
In pratica, abbiamo costruito una rete di interazioni api-piante basata sul rischio pesticidi. Questo ci ha permesso di stimare il pericolo (usando un indice chiamato Quoziente di Rischio, o HQ) a cui ogni genere di ape selvatica era esposto visitando i diversi fiori.

La scoperta sorprendente: il pericolo viene dal basso!
E qui arriva la sorpresa, quella che ci ha fatto davvero riflettere. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare (e a quanto suggerito da altri studi), il rischio maggiore per le api non-Apis non proveniva dalla coltura principale (il ciliegio) né dalla deriva dei pesticidi *fuori* dal frutteto. No, la fonte principale di pericolo era una pianta comunissima che cresce *nel sottobosco* del frutteto stesso: il Tarassaco (Taraxacum), il comune dente di leone!
Come è possibile? Per due motivi principali:
- Il polline di Tarassaco raccolto nei frutteti presentava livelli di contaminazione da pesticidi (e quindi un HQ) piuttosto elevati.
- Le api non-Apis, in particolare quelle del genere Osmia (molto abbondanti nel nostro studio), visitavano i fiori di Tarassaco con grande frequenza.
Quindi, la combinazione di alta contaminazione e frequenti visite ha reso il Tarassaco la pianta più “pericolosa” per queste api selvatiche all’interno del sistema che abbiamo studiato.
Reti di rischio: chi visita cosa e quanto rischia?
Per visualizzare meglio questi risultati, abbiamo creato delle “reti di impollinazione”. Una rete “base” mostra semplicemente quali api visitano quali piante e con quale frequenza. Una seconda rete, invece, è “pesata” per il rischio (HQ): le connessioni tra api e piante sono tanto più “spesse” quanto maggiore è il rischio associato a quella visita (dato dalla frequenza *e* dalla contaminazione della pianta).
Guardando queste reti, l’importanza del Tarassaco balza all’occhio. Nella rete base, rappresentava una frazione modesta delle interazioni totali. Ma nella rete pesata per il rischio, la sua importanza schizzava alle stelle, arrivando a rappresentare quasi la metà di tutto il rischio calcolato per le api non-Apis in un anno! Al contrario, piante molto visitate ma con basso rischio (come la Balsamorhiza, un’asteracea nativa della savana) perdevano importanza nella rete pesata.
Anche l’importanza relativa dei diversi generi di api cambiava. Le Osmia, già le più frequenti nella rete base, diventavano ancora più centrali nella rete pesata per il rischio, proprio a causa delle loro numerose visite al Tarassaco contaminato. In un altro anno, invece, sono state le api del genere Andrena a mostrare i livelli di rischio per visita più alti, soprattutto quando bottinavano su piante della famiglia delle Brassicaceae (come la senape usata come coltura di copertura) fiorite dopo la caduta dei petali dei ciliegi.
Questo ci dice che non solo piante diverse presentano rischi diversi, ma anche api diverse, a seconda delle loro preferenze e del periodo dell’anno, affrontano livelli di pericolo differenti.

Cosa significa tutto questo per la protezione delle api?
Questi risultati hanno implicazioni pratiche importanti. Se vogliamo proteggere *tutte* le api, non possiamo basarci solo su quello che sappiamo delle api da miele o assumere che il rischio provenga solo dalla coltura principale.
- Gestire il sottobosco: Nel caso dei ciliegeti studiati, controllare le fioriture delle erbe infestanti nel sottobosco (come il Tarassaco) *prima* dei trattamenti pesticidi potrebbe essere una strategia di mitigazione molto più efficace per le api non-Apis rispetto, ad esempio, a cambiare l’orario di irrorazione sulla coltura principale (che magari aiuta di più le api da miele che visitano attivamente i fiori di ciliegio).
- Monitoraggio specifico: È fondamentale raccogliere dati specifici sulle interazioni api-piante e sulla contaminazione in diversi sistemi agricoli. Non possiamo generalizzare! Quello che abbiamo trovato per il Tarassaco nei ciliegeti dell’Oregon potrebbe non valere per altre colture o altre regioni.
- Oltre l’HQ: Dobbiamo anche ricordare che il Quoziente di Rischio (HQ) è una misura semplificata. Non tiene conto delle possibili interazioni (sinergie) tra diversi pesticidi o della diversa sensibilità delle varie specie di api. È un punto di partenza utile, ma la ricerca futura dovrà approfondire questi aspetti.
Un messaggio da portare a casa
La storia che emerge dal nostro studio è affascinante e un po’ preoccupante: il pericolo per le preziose api selvatiche può nascondersi dove meno te lo aspetti, non solo sui fiori della coltura che vogliamo proteggere, ma anche sulle “erbacce” che crescono sotto. Dimostra ancora una volta quanto sia complesso l’ecosistema agricolo e quanto sia importante guardare oltre le apparenze (e oltre le sole api da miele!) per sviluppare strategie di protezione veramente efficaci.
Il nostro lavoro sottolinea l’importanza di integrare dati ecologici (chi visita cosa) con dati tossicologici (la contaminazione delle risorse) per capire davvero i rischi. Spero che questa ricerca stimoli ulteriori indagini e, soprattutto, azioni concrete per rendere le nostre campagne luoghi più sicuri per tutti gli impollinatori.
Fonte: Springer
