Fotografia cinematografica di un paesaggio greco nebbioso all'alba, stile Angelopoulos, con una figura solitaria femminile in lontananza vicino a una rovina antica appena visibile sulla riva di un fiume. Obiettivo grandangolare 24mm, lunga esposizione per acqua e nuvole sfumate, colori desaturati tendenti al seppia e grigio, atmosfera malinconica e contemplativa, profondità di campo.

Angelopoulos e l’Antica Grecia: Un Dialogo Nascosto negli Ultimi Capolavori

Sapete, c’è qualcosa di profondamente affascinante nel modo in cui certi registi riescono a intrecciare il passato nel presente, non in modo didascalico, ma sussurrato, quasi segreto. E quando penso a questo, la mente corre subito a Theo Angelopoulos, quel gigante del cinema greco moderno che ci ha lasciato troppo presto. Nei suoi ultimi due film completati, La Sorgente del Fiume (Το λιβάδι που δακρύζει, 2004) e La Polvere del Tempo (Η Σκόνη του Χρόνου, 2008), ho ritrovato quella sua capacità unica di dialogare con l’antica Grecia, ma in un modo tutto suo, obliquo, “mascherato”.

Non aspettatevi le classiche trasposizioni alla Cacoyannis, quelle con l’etichetta “tratto da Euripide” ben in vista. No, Angelopoulos gioca una partita diversa. Prende in prestito trame, personaggi, motivi dal mito, dall’epica, dalla tragedia greca, ma li scioglie, li adatta, li fa rivivere in contesti nuovi, spesso dolorosi, della storia greca moderna. È come se le antiche storie fossero dei fantasmi che aleggiano sulle vite dei suoi personaggi, influenzandole senza mai palesarsi completamente.

Un Approccio Diverso all’Adattamento

Mi affascina pensare all’adattamento non come a una perdita rispetto all’originale, ma come a una sintesi creativa. Angelopoulos stesso usava questa parola, “sintesi”. I riferimenti classici nei suoi film non sono mai l’elemento principale, ma una delle tante tessere che compongono un mosaico complesso, fatto di storia, cultura, politica e, naturalmente, cinema. È un invito a noi spettatori a riconsiderare il nostro rapporto con quel passato ingombrante, specialmente per un greco moderno. In Grecia, come ammetteva lo stesso Angelopoulos, Omero e i tragici fanno parte del DNA culturale, si vive letteralmente “in una terra piena di ricordi, pietre antiche e statue spezzate”.

Eppure, lui sceglie di non celebrare apertamente questa eredità. Anzi, a volte sembra quasi metterla in discussione, sfidando lo status canonico dell’antica Grecia sia all’interno che all’esterno dei confini ellenici. Questo approccio “mascherato” richiede uno spettatore attivo, disposto a decodificare, a cercare le connessioni, a chiedersi: sto leggendo troppo tra le righe o c’è davvero un sottotesto classico che aggiunge profondità? Io credo fermamente nella seconda ipotesi. È un cinema che non ti serve la pappa pronta, ma ti sfida a pensare, a scavare sotto la superficie.

La Sorgente del Fiume: Echi Tragici nel XX Secolo

Prendiamo La Sorgente del Fiume. Il film attraversa un periodo turbolento, dalla fuga dei profughi greci dopo la rivoluzione russa (1917) fino alla fine della guerra civile greca (1949). Al centro, una figura emblematica: Eleni. Il nome non è casuale. È Elena, sì, quella di Troia, “η ωραία Ελένη”, l’Elena del mito, come diceva Angelopoulos, “l’Elena di tutti i miti che è inseguita… ma che insegue anche l’amore assoluto”. Ma qui non c’è la bellezza fatale che scatena guerre tra eroi. C’è una donna travolta dalla Storia, il cui amore per Alexis ha conseguenze devastanti.

La loro relazione ha persino un’eco incestuosa: cresciuti come fratello e sorella adottivi, e lei sposa poi il padre di lui, Spyros, diventando tecnicamente la sua matrigna. Ricorda il ciclo tebano, Edipo e Giocasta, no? Ma qui non c’è un oracolo, ci sono gli sconvolgimenti politici e lo sradicamento a dettare il destino. Spyros, il padre/marito tradito, è ossessionato dalla vergogna, dal rispetto perduto nella comunità, un po’ come un eroe antico preoccupato del suo status. La sua ricerca implacabile della coppia ricorda la furia di figure mitologiche ferite nell’onore.

Scena cinematografica da 'La Sorgente del Fiume' di Angelopoulos: un funerale solenne su un fiume nebbioso. Una bara su una zattera, seguita da barche con persone in lutto che reggono bandiere nere. Stile epico, colori desaturati, obiettivo 35mm, atmosfera malinconica, profondità di campo.

Il film è intriso di motivi visivi potenti che richiamano l’antichità. L’acqua, onnipresente: il fiume che porta i profughi, il mare che separa Eleni e Alexis, il lago che sommerge il villaggio e dove Eleni ritroverà il corpo del figlio Yiorgos. L’acqua, solitamente fonte di vita, qui è spesso legata alla separazione e alla morte. E poi quella scena incredibile del funerale di Spyros sul fiume: una processione di barche che sembra uscita da un’epopea o dal mito di Caronte. O la scena scioccante delle pecore sacrificate e appese all’albero, un’eco oscura degli antichi sacrifici animali, qui però carica di malevolenza, una maledizione visiva scagliata sulla coppia.

La storia personale si scontra continuamente con la Storia con la S maiuscola: la “Grande Idea” di una Grecia espansa che porta al disastro del ’22, l’invasione italiana, la guerra civile che mette fratello contro fratello. I due figli gemelli di Eleni e Alexis, Yannis e Yorgos, finiranno per combattere su fronti opposti, come Eteocle e Polinice. E quando Eleni, alla fine del film, cerca il corpo del figlio “proibito”, quello che ha combattuto dalla parte sbagliata, non possiamo non pensare ad Antigone. Il suo lamento finale, quel grido straziante e senza parole dopo aver detto “Non ho più nessuno”, racchiude tutta la tragedia di una vita, ma anche quella di una nazione lacerata.

La Polvere del Tempo: Esilio Globale e Frammenti di Mito

La Polvere del Tempo allarga ancora di più lo sguardo, geograficamente e temporalmente. La storia copre la seconda metà del XX secolo fino all’alba del nuovo millennio, spostandosi tra Italia, Russia, Kazakistan, Germania, Stati Uniti, Canada. Al centro c’è ancora una Eleni, e ancora un amore tormentato, questa volta con un altro Spyros (i nomi tornano, carichi di significato!). E c’è un altro rivale, l’amico in esilio Jacob Levi.

Qui il tema dell’esilio diventa quasi esistenziale. Tutti i personaggi sono in viaggio, sradicati, alla perenne ricerca di una casa che sembra irraggiungibile. “La mia unica casa sono e sono state le storie che racconto”, dice a un certo punto il figlio di Eleni, un regista che sta cercando faticosamente di fare un film sulla vita dei suoi genitori. È l’ammissione di un’incapacità di mettere radici, forse conseguenza dei traumi infantili, dell’abbandono. Anche questa Eleni, come la precedente, è costretta a lasciare il proprio figlio. La maternità negata o interrotta è un altro filo rosso che lega queste figure femminili al loro archetipo mitico, ma Angelopoulos, a differenza di molte rappresentazioni moderne di Elena, sottolinea proprio questo aspetto doloroso.

Fotogramma cinematografico da 'La Polvere del Tempo' di Angelopoulos: una vasta distesa innevata in Siberia al crepuscolo. Figure umane minuscole vicino a baracche di un gulag. Obiettivo grandangolare 10mm, lunga esposizione, colori freddi e bluastri, sensazione di isolamento e vastità.

Il film riflette questa frammentazione anche a livello linguistico (si parla greco, inglese, italiano, tedesco, russo) e temporale, con salti che rendono la narrazione un puzzle. E ancora una volta, la politica, la Storia, irrompono nelle vite private: l’esilio politico, la prigionia in Siberia, l’espulsione dall’URSS, il confine come barriera invalicabile ma necessaria da attraversare. Non ci sono soluzioni facili, non c’è un deus ex machina. Il passato, antico o recente, è un fardello pesante.

Anche la musica, curata dalla fidata Eleni Karaindrou per La Sorgente del Fiume e più eclettica in La Polvere del Tempo, gioca un ruolo cruciale. È un modo per dare un senso al trauma, per trovare un fragile conforto. Ma anche l’arte, come la musica o la danza (penso alla danza di Eleni sul molo o all’ultimo ballo con Jacob), è sempre minacciata, interrotta dalla violenza o dalle pressioni esterne. Ne riconosciamo la bellezza e il potenziale redentivo, ma ne constatiamo anche la fragilità.

Noi, Angelopoulos e l’Antichità

Allora, cosa ci lascia questo viaggio negli ultimi film di Angelopoulos? Ci lascia la sensazione di aver assistito alla creazione di una nuova mitologia per la Grecia moderna. Una mitologia che non rinnega il passato classico, ma lo interroga, lo usa per parlare delle ferite del presente. Angelopoulos ci costringe a rallentare, con i suoi piani sequenza lunghissimi e il suo ritmo contemplativo, e a diventare spettatori attivi, quasi co-autori del senso.

L’effetto di straniamento, il famoso Verfremdungseffekt brechtiano che Angelopoulos ammirava, ci impedisce un’identificazione emotiva immediata e ci spinge a riflettere. Riflettere sulla storia, sulla memoria, sull’esilio, sull’amore impossibile, ma anche sul modo stesso in cui riceviamo e interpretiamo il passato. Come classicista, potrei passare ore a rincorrere ogni singolo riferimento, ma la cosa più interessante è capire come Angelopoulos usa questi elementi, come li piega ai suoi scopi.

Non si tratta di cercare la fedeltà all’originale, ma di apprezzare il dialogo che si crea tra testi e contesti diversi, attraverso il tempo e i media. Angelopoulos ci sfida a liberarci dal peso ideologico che spesso accompagna il nostro rapporto con l’antichità e a guardare sia al passato che al presente con occhi nuovi. E in un mondo che sembra sempre più deteriorarsi, come diceva lui, forse il suo cinema è davvero una delle ultime, importanti forme di resistenza. Un invito a non accettare passivamente vecchie certezze e gerarchie stabilite, ma a continuare a interrogare, a scavare nella polvere del tempo.

Fonte: Springer

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