Alzheimer: Una Nuova Speranza dal Sistema Immunitario? Scoperto un Bersaglio Chiave!
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa di veramente affascinante che sta emergendo dalla ricerca sull’Alzheimer, una malattia che, purtroppo, conosciamo fin troppo bene per il suo impatto devastante sulla memoria e sulla vita delle persone. Sapete, per anni ci siamo concentrati principalmente sulle placche amiloidi e sui grovigli neurofibrillari nel cervello, ma cosa succederebbe se vi dicessi che una parte della risposta, o almeno una nuova strada da esplorare, potesse trovarsi nel nostro stesso sistema immunitario, e in particolare nel modo in cui le sue cellule “mangiano” e producono energia? Sembra fantascienza? Forse un po’, ma seguitemi in questo viaggio.
Il Sistema Immunitario: Un Attore Inaspettato nell’Alzheimer?
Abbiamo sempre saputo che il sistema immunitario è fondamentale per difenderci da virus e batteri, ma negli ultimi anni stiamo scoprendo che gioca un ruolo cruciale anche nella salute del nostro cervello. Mantenimento, riparazione… l’immunità protettiva è essenziale. Il problema è che nell’Alzheimer, questa protezione sembra andare in tilt.
Recentemente, lavorando su un gruppo di persone con una forma familiare di Alzheimer (quella che colpisce prima, causata da specifiche mutazioni genetiche), abbiamo fatto una scoperta sorprendente. Utilizzando una tecnologia pazzesca chiamata citometria di massa a tempo di volo (CyTOF), che ci permette di analizzare decine di caratteristiche di ogni singola cellula immunitaria, abbiamo notato qualcosa di strano nelle cellule T CD4+ (un tipo specifico di globuli bianchi) di individui che avevano la mutazione ma *non avevano ancora sviluppato i sintomi* della malattia.
CD38: Un Interruttore Metabolico Sotto i Riflettori
Cosa abbiamo trovato? Un aumento significativo di una proteina sulla superficie di queste cellule T CD4+: la CD38. Ora, la CD38 non è una sconosciuta. È un enzima coinvolto nel metabolismo di una molecola vitale per l’energia cellulare, il NAD+ (nicotinamide adenina dinucleotide). Pensate al NAD+ come alla benzina delle nostre cellule. La CD38, in pratica, “consuma” questa benzina.
Nei nostri pazienti pre-sintomatici, non solo c’era più CD38, ma le cellule che la esprimevano mostravano segni di sofferenza metabolica: facevano fatica a utilizzare il glucosio (lo zucchero che è un’altra fonte primaria di energia) e i loro mitocondri (le “centrali energetiche” delle cellule) non sembravano funzionare al meglio. Era come se queste cellule immunitarie fossero “affamate” o “stanche” ancor prima che la malattia si manifestasse clinicamente.
Questa scoperta è stata elettrizzante! Poteva la CD38 essere non solo un marcatore precoce, un campanello d’allarme che suona prima dell’incendio, ma anche un potenziale “bersaglio” terapeutico? Un “checkpoint immunometabolico”, come lo abbiamo definito? Un interruttore che, se spento, potesse ripristinare la salute di queste cellule immunitarie e, magari, rallentare la malattia?

Dagli Umani ai Topi: Testare l’Ipotesi
Per rispondere a questa domanda, siamo passati a un modello animale, i topi 5xFAD. Questi topolini sono ingegnerizzati per sviluppare una forma di Alzheimer molto simile a quella umana, con tanto di placche amiloidi e problemi di memoria. Anche in questi topi, abbiamo osservato un aumento della CD38 sulle cellule T, specialmente con l’invecchiamento.
A questo punto, abbiamo fatto l’esperimento chiave: abbiamo trattato questi topi con un anticorpo specifico progettato per bloccare la funzione della CD38. È un po’ come dare una chiave inglese per chiudere un rubinetto che perde (in questo caso, il “rubinetto” che consuma troppo NAD+).
I risultati? Beh, direi incoraggianti è dire poco!
- Miglioramento Metabolico: I topi trattati hanno mostrato un miglioramento della loro “fitness metabolica”. Le loro cellule T, analizzate in laboratorio, erano più brave a catturare il glucosio e avevano mitocondri più sani. Anche a livello generale, i topi trattati mostravano parametri metabolici migliori (come utilizzavano l’energia, quanto si muovevano).
- Memoria Ritrovata: E la parte più emozionante: i topi trattati con l’anticorpo anti-CD38 hanno mostrato prestazioni cognitive migliori! In test specifici, come quello del riconoscimento di oggetti nuovi (NOR test), si sono comportati molto meglio dei topi non trattati, quasi come i topi sani. Riuscivano a ricordare meglio quali oggetti avevano già visto.
- Meno Infiammazione nel Cervello: Abbiamo anche guardato dentro il cervello di questi topi. Sebbene le placche amiloidi non fossero diminuite (questo approccio forse non agisce direttamente su quelle), abbiamo visto una riduzione significativa di un importante marcatore di infiammazione cerebrale, l’interleuchina-1 beta (IL-1β), nella corteccia. Meno infiammazione è quasi sempre una buona notizia nel contesto delle malattie neurodegenerative.
Uno Sguardo alle Meningi: Un Campo di Battaglia Inaspettato
Ma come faceva un trattamento che agiva sul sistema immunitario periferico (nel sangue) a migliorare la cognizione e ridurre l’infiammazione *dentro* il cervello? Qui le cose si fanno ancora più interessanti.
Abbiamo analizzato diversi “distretti” immunologici nei topi, dal sangue alla milza, ai linfonodi, fino alle meningi. Le meningi sono quelle membrane sottili che avvolgono il cervello e il midollo spinale, una sorta di “confine” tra il cervello e il resto del corpo. Ebbene, proprio nelle meningi dei topi malati abbiamo trovato un accumulo di un tipo particolare di cellule T CD4+, le cellule TH17, note per produrre una citochina infiammatoria chiamata interleuchina-17 (IL-17A). Alti livelli di IL-17 sono stati collegati, in altri studi, al declino cognitivo.
La cosa incredibile è che il trattamento con l’anticorpo anti-CD38 ha specificamente ridotto queste cellule TH17 nelle meningi! Non solo, ma ha anche abbassato i livelli di IL-1β nella corteccia cerebrale sottostante. Sembra quasi che ci sia un dialogo negativo tra le cellule TH17 nelle meningi e l’infiammazione nella corteccia, e che bloccare la CD38 riesca a interrompere questo circolo vizioso. Abbiamo visto anche cambiamenti nel liquido cerebrospinale (il fluido che bagna il cervello) che suggerivano una riduzione dell’attività metabolica legata proprio alla “cattiveria” delle cellule TH17.

Un Asse Intestino-Cervello?
C’è un ultimo pezzo del puzzle che voglio condividere. Da dove arrivano queste cellule TH17 nelle meningi? Un’ipotesi affascinante è che possano provenire… dall’intestino! Sappiamo che l’intestino è una fucina di attività immunitaria e che il tipo di batteri che ospitiamo (il nostro microbioma) può “educare” le cellule T.
Abbiamo confrontato i topi 5xFAD normali con topi 5xFAD “germ-free” (GF), cioè cresciuti in ambiente sterile e privi di microbioma intestinale. I topi GF, che in studi precedenti avevano mostrato prestazioni cognitive migliori, avevano livelli bassissimi di cellule TH17 sia nelle placche di Peyer (tessuto immunitario dell’intestino) sia nelle meningi! Al contrario, i topi 5xFAD normali ne avevano molte in entrambi i distretti. Questo suggerisce un possibile “asse intestino-meningi-cervello”, dove segnali provenienti dall’intestino potrebbero influenzare l’accumulo di queste cellule potenzialmente dannose ai confini del cervello.
Cosa Significa Tutto Questo? Speranze per il Futuro
Mettendo insieme tutti i pezzi, quello che emerge è un quadro nuovo e promettente. Abbiamo identificato la CD38 come un “checkpoint immunometabolico”: una proteina che non solo è elevata nelle cellule immunitarie di persone a rischio di Alzheimer prima ancora dei sintomi, ma che sembra anche contribuire attivamente alla disfunzione metabolica di queste cellule e, potenzialmente, all’infiammazione cerebrale e al declino cognitivo.
Bloccare la CD38 nei topi modello ha migliorato il metabolismo, la memoria e ridotto l’infiammazione, in particolare agendo su quelle cellule TH17 nelle meningi.
Certo, siamo ancora lontani da una cura. Questi sono risultati ottenuti su modelli animali e in un gruppo specifico di pazienti con AD familiare. Serviranno molte altre ricerche per confermare questi dati, per capire se la CD38 è un marcatore valido anche per la forma sporadica di Alzheimer (la più comune) e per sviluppare terapie sicure ed efficaci per l’uomo.
Ma questa scoperta apre una porta importante. Ci dice che guardare al metabolismo delle cellule immunitarie potrebbe essere una strategia vincente. La CD38 si unisce ad altri “checkpoint immunitari” che si stanno studiando non solo per il cancro, ma anche per le malattie neurodegenerative. L’idea di poter “riprogrammare” o “rivitalizzare” il nostro sistema immunitario per proteggere il cervello è incredibilmente stimolante.
Forse, in futuro, potremmo usare la CD38 come biomarcatore per diagnosi precoci o per monitorare la risposta alle terapie. E forse, terapie che mirano alla CD38, da sole o in combinazione con altri approcci (magari anche quelli che agiscono sull’amiloide o sulla tau), potrebbero offrire una nuova arma per combattere questa malattia devastante.
È un percorso ancora lungo, ma ogni passo avanti nella comprensione di meccanismi così complessi ci avvicina a un futuro in cui l’Alzheimer possa essere non solo gestito, ma forse anche prevenuto o curato. E questa, lasciatemelo dire, è una speranza che vale la pena coltivare.
Fonte: Springer
