Agricoltura e Biodiversità: Intensificare o Espandere? Il Dilemma Svelato (e Non È Come Pensi!)
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, ammettiamolo, è un bel rompicapo: come facciamo a sfamare una popolazione mondiale in crescita senza distruggere la biodiversità del nostro pianeta? La questione si riduce spesso a un bivio apparentemente semplice: è meglio intensificare l’agricoltura, cioè produrre di più sullo stesso terreno, o espandere le aree coltivate, magari convertendo foreste o praterie?
Per anni, molti (me compreso, a volte!) hanno pensato che l’intensificazione fosse la risposta più “verde”. L’idea è: concentriamo la produzione in aree più piccole e super produttive, così lasciamo più spazio alla natura altrove. Suona bene, no? Peccato che la realtà, come spesso accade, sia molto più sfumata. Un recente studio globale, pubblicato su Nature Ecology e Evolution, ha messo proprio i puntini sulle i, analizzando cosa succede davvero alla biodiversità quando scegliamo una strada o l’altra. E le conclusioni, ve lo dico subito, sono tutt’altro che scontate.
L’impatto della conversione dei terreni: una ferita aperta
Partiamo da un dato di fatto abbastanza intuitivo: convertire habitat naturali, specialmente la vegetazione primaria (quella mai toccata o quasi dall’uomo), in campi coltivati è un duro colpo per la biodiversità. Lo studio conferma che questa conversione porta a una riduzione significativa sia del numero di specie (la ricchezza specifica) sia del numero totale di individui (l’abbondanza).
Pensate che, in media, si stima una perdita di specie dell’11% già solo nella vegetazione primaria che si trova *all’interno* di paesaggi modificati dall’uomo. Se poi guardiamo direttamente ai terreni coltivati, la perdita sale al 25% se questi si trovano in paesaggi ancora relativamente naturali, e addirittura al 40% se sono immersi in paesaggi già molto modificati! Non solo perdiamo specie e individui, ma assistiamo anche a un fenomeno chiamato omogeneizzazione biotica. In pratica, le comunità ecologiche diventano sempre più simili tra loro, perdendo le loro caratteristiche uniche. Lo studio misura questo fenomeno con un indice chiamato RCAR (Relative Community Abundance-weighted Average Range Size), che tende ad aumentare quando le specie più comuni e diffuse prendono il sopravvento su quelle più rare e localizzate.
Quindi, primo punto fermo: l’espansione, soprattutto a danno di ecosistemi integri, costa cara alla biodiversità. E attenzione, anche la vegetazione primaria “superstite” all’interno di paesaggi agricoli non se la passa benissimo rispetto a quella in aree completamente naturali, specialmente nelle zone non tropicali. Questo ci dice che invadere nuovi territori ha un prezzo altissimo.
Ma l’intensificazione è davvero la panacea?
Qui le cose si complicano. L’idea che aumentare le rese sui campi esistenti sia sempre la scelta migliore viene messa in discussione. Lo studio ha analizzato l’impatto dell’aumento delle rese (cioè quanto si produce per ettaro) per quattro colture fondamentali – mais, soia, grano e riso – che da sole forniscono più della metà delle calorie globali. Ebbene, anche aumentare le rese ha un impatto sulla biodiversità, e non sempre positivo!
L’effetto dipende da un sacco di fattori:
- La coltura specifica: Ad esempio, aumentare la resa della soia non sembra influenzare molto la ricchezza di specie, mentre per il riso, in paesaggi con molta vegetazione naturale, un aumento della resa può addirittura portare a un aumento della ricchezza di specie!
- La regione geografica: Qui le differenze sono marcate, soprattutto tra zone tropicali e non tropicali. Nelle aree tropicali, aumentare la resa di mais e soia spesso fa aumentare l’abbondanza totale di organismi, ma fa anche schizzare alle stelle l’omogeneizzazione biotica (RCAR). Tradotto: prosperano le specie “generaliste” e diffuse, a scapito di quelle più specializzate. Nelle zone non tropicali, invece, spesso accade il contrario: l’aumento delle rese porta a una diminuzione sia dell’abbondanza sia dell’omogeneizzazione. Perché questa differenza? Forse perché nelle zone temperate, con una storia agricola più lunga, le specie sensibili sono già state filtrate via da tempo, e ora anche quelle più tolleranti soffrono l’intensificazione spinta.
- La quantità di habitat naturale rimasto: La presenza di foreste, siepi, zone umide nel paesaggio agricolo può fare da “cuscinetto”, ma non sempre e non per tutte le colture. Per il grano, ad esempio, l’effetto negativo dell’aumento di resa su ricchezza e abbondanza è addirittura più forte dove c’è più habitat naturale (forse perché lì c’è più biodiversità “iniziale” da perdere?). Per mais e soia, l’habitat naturale aiuta l’abbondanza ma peggiora l’omogeneizzazione (aiuta le specie diffuse). Per il riso, invece, avere tanto habitat naturale sembra essere davvero positivo: l’aumento di resa favorisce la ricchezza di specie e riduce l’omogeneizzazione (forse perché le risaie creano habitat umidi temporanei utili a specie specifiche?).
- La storia del paesaggio: Dove l’uomo ha modificato il paesaggio da molto tempo (millenni), le differenze tra i vari tipi di uso del suolo sono meno nette, probabilmente perché l’omogeneizzazione è già avvenuta in passato.
Chiudere i “yield gaps”: una soluzione a doppio taglio
Un’idea popolare è quella di “chiudere i gap di rendimento” (yield gaps), cioè portare le aree che attualmente producono poco a raggiungere i livelli massimi potenziali per quella regione. Sembra efficiente, no? Ma lo studio lancia un allarme: farlo potrebbe avere costi per la biodiversità locale molto più alti di quanto si pensasse. Le proiezioni indicano che chiudere questi gap porterebbe a una diminuzione della ricchezza di specie nel 73% delle aree analizzate, e a una diminuzione dell’abbondanza nel 61% delle aree. L’omogeneizzazione (RCAR) peggiorerebbe soprattutto nelle zone tropicali. Insomma, questa strategia va forse ripensata o applicata con molta più cautela.
Allora, intensificare o espandere? La risposta è… dipende!
Lo studio ha fatto anche un confronto diretto: cosa succede se, in un’area già coltivata, vogliamo aumentare la produzione totale, diciamo, dell’1%? È meglio ottenere quell’1% intensificando la produzione sull’area esistente o espandendo leggermente la coltivazione a spese della vegetazione primaria vicina?
I risultati sono un mosaico:
- Per la ricchezza di specie, l’intensificazione risulta migliore nel 83% delle aree a soia e nel 64% di quelle a grano, ma solo nel 29% di quelle a mais e nel 57% di quelle a riso. Negli altri casi, paradossalmente, una piccola espansione sarebbe (marginalmente) meno dannosa per il numero di specie.
- Per l’abbondanza totale, l’espansione risulta spesso migliore per mais, soia e grano (vince in oltre il 60% delle aree), mentre l’intensificazione è preferibile per il riso e in generale nelle zone tropicali.
- Per l’omogeneizzazione (RCAR), l’intensificazione è generalmente migliore (meno omogeneizzazione) per mais, soia e grano (vince nel 71-74% delle aree), ma l’espansione risulta migliore per il riso e, di nuovo, nelle zone tropicali per mais e soia.
Capite la complessità? Non c’è una risposta unica. La scelta “migliore” per la biodiversità locale dipende da dove siamo, cosa coltiviamo e quale aspetto della biodiversità ci interessa di più (numero di specie, abbondanza, unicità della comunità).
Cosa portiamo a casa da tutto questo?
Se c’è una cosa che questo studio ci insegna è che dobbiamo abbandonare le soluzioni semplicistiche. Né l’intensificazione sfrenata né l’espansione indiscriminata sono la risposta. Ecco alcuni punti chiave su cui riflettere:
1. Evitare l’espansione in paesaggi incontaminati: Questo rimane un imperativo. I costi per la biodiversità sono troppo alti.
2. L’intensificazione non è gratis: Aumentare le rese ha impatti, a volte pesanti, sulla biodiversità locale. Dobbiamo capire quali sono i livelli di intensificazione “sicuri”.
3. Il contesto è tutto: Le strategie devono essere calibrate a livello locale, tenendo conto della geografia, della coltura, dell’habitat residuo e degli obiettivi specifici di conservazione.
4. L’habitat naturale nei paesaggi agricoli è prezioso: Anche se il suo ruolo di “cuscinetto” è complesso, mantenere e ripristinare elementi naturali come siepi, boschetti, zone umide all’interno delle aree agricole è fondamentale.
5. Guardare oltre la produzione: Forse la domanda più importante non è *come* produrre di più, ma *se* abbiamo davvero bisogno di produrre sempre di più. Ridurre gli sprechi alimentari e spostarsi verso diete più sostenibili potrebbe allentare la pressione sia sull’espansione sia sull’intensificazione.
Insomma, la strada per conciliare agricoltura e biodiversità è stretta e richiede un equilibrio delicato, basato sulla conoscenza scientifica e su scelte consapevoli a tutti i livelli, dal campo alla tavola. Non ci sono scorciatoie facili, ma capire la complessità è il primo passo per trovare soluzioni veramente sostenibili.
Fonte: Springer