Addome Aperto vs Chiusura Primaria nella Sepsi Addominale Grave: Qual è la Scelta Vincente?
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento tosto, uno di quelli che tengono noi chirurghi svegli la notte: la gestione della sepsi addominale grave. Immaginate una situazione critica, un’infezione devastante all’interno dell’addome, spesso dovuta a perforazioni intestinali o ischemie. Il paziente è in condizioni critiche, spesso instabile. Che fare dopo l’intervento chirurgico iniziale per pulire tutto? Chiudere subito l’addome (la cosiddetta chiusura primaria o PC) o lasciarlo temporaneamente aperto (la strategia dell’addome aperto o OA), magari con sistemi di aspirazione, per poter tornare a controllare e pulire nei giorni successivi?
Questa è una domanda da un milione di dollari, credetemi. Le linee guida internazionali, come quelle della World Society of Emergency Surgery (WSES), suggeriscono l’addome aperto in casi selezionati: pazienti molto instabili, controllo inadeguato dell’infezione alla prima chirurgia, o quando c’è il rischio di sindrome compartimentale addominale (troppa pressione dentro la pancia). Però, diciamocelo, queste indicazioni sono un po’ vaghe e basate su evidenze non fortissime (Grado 2C, per i tecnici). Inoltre, negli ultimi anni, sono emersi sempre più studi che segnalano le complicanze legate all’addome aperto, rendendo la scelta ancora più dibattuta.
Il Dilemma: Addome Aperto o Chiusura Primaria?
Da una parte, l’addome aperto sembra logico per i pazienti più critici: permette interventi più rapidi inizialmente, un trasferimento veloce in terapia intensiva e la possibilità di “second look” programmati per verificare che l’infezione sia sotto controllo. Dall’altra, tenere l’addome aperto non è una passeggiata: aumenta il rischio di infezioni secondarie, fistole (comunicazioni anomale tra intestino e cute), perdite di liquidi e, a lungo termine, ernie incisionali (laparoceli) molto complesse da trattare.
La verità è che, nella pratica clinica, la decisione finale dipende molto dall’esperienza del chirurgo, dalle condizioni generali del paziente, dalla gravità e dall’origine della peritonite, più che da rigide indicazioni. C’è una grande eterogeneità nelle scelte fatte nei vari centri.
La Nostra Indagine: Metodi e Pazienti
Proprio per cercare di fare un po’ di chiarezza, nel nostro centro di riferimento (un Trauma Center terziario), abbiamo deciso di analizzare retrospettivamente i dati degli ultimi 5 anni (dal 2019 al 2024). Volevamo confrontare gli esiti post-operatori dei pazienti sottoposti a laparotomia urgente per peritonite secondaria grave, divisi in due gruppi: quelli gestiti con chiusura primaria (PC) e quelli con addome aperto (OA).
Abbiamo setacciato i nostri archivi, identificando tutti i pazienti operati per peritonite, perforazione, sepsi o shock settico. Da questi, abbiamo selezionato solo i casi di peritonite secondaria (escludendo pancreatiti, traumi, gravidanze, ecc.) e abbiamo usato un punteggio specifico, il WSES Sepsis Severity Score (WSES-SSS), per includere solo i pazienti con una forma grave (punteggio >= 7). Alla fine, abbiamo incluso nello studio 176 pazienti: 128 (72,7%) nel gruppo PC e 48 (27,3%) nel gruppo OA.
Abbiamo analizzato un sacco di dati: caratteristiche demografiche, gravità della peritonite (usando anche un altro indice, il Mannheim Peritonitis Index – MPI), necessità di farmaci vasopressori (per sostenere la pressione), tipo di essudato trovato in addome, durata dell’intervento, tipo di chiusura, numero di re-interventi (nel gruppo OA), e le ragioni (quando specificate) per cui si era scelto l’OA. Come esiti, abbiamo guardato la mortalità post-operatoria (obiettivo primario), le complicanze a breve termine (usando la classificazione di Clavien-Dindo), la durata della degenza (LOS) e la presenza di ernie incisionali nel follow-up.
Mortalità: Cosa Dicono i Numeri?
E qui arriva il primo risultato importante: non abbiamo trovato differenze statisticamente significative nella mortalità tra i due gruppi. Né la mortalità a 30 giorni (39,6% OA vs 31,5% PC, p=0.371), né quella intra-ospedaliera (41,7% OA vs 32,3% PC, p=0.287). Attenzione, i tassi di mortalità sono alti in entrambi i gruppi, ma questo è purtroppo atteso data la gravità dei pazienti che abbiamo selezionato (sepsi grave, spesso in pazienti anziani o immunocompromessi).
Abbiamo anche fatto un’analisi statistica più complessa (regressione logistica multivariata) per vedere quali fattori influenzassero davvero la mortalità, tenendo conto di età, sesso e gravità della peritonite (MPI). Ebbene, l’unico fattore risultato indipendente e predittivo di mortalità è stato l’MPI (p=0.016): più grave era la peritonite all’inizio, maggiore era il rischio di morire, indipendentemente dalla strategia chirurgica (OA o PC) adottata. L’uso dell’addome aperto, di per sé, non è risultato un fattore protettivo né un fattore di rischio significativo per la mortalità nella nostra analisi multivariata (p=0.336).
Questi risultati sono in linea con parte della letteratura, anche se studi recenti e robusti su questo specifico argomento scarseggiano. Alcuni studi precedenti (come quello di Kao del 2019 o Nzenwa) avevano addirittura mostrato uno svantaggio in termini di mortalità per l’OA, ma spesso includevano popolazioni più eterogenee o usavano metodologie (come il propensity score matching) che potrebbero non eliminare completamente i bias. Il nostro studio, pur retrospettivo, ha il vantaggio di analizzare pazienti gestiti dallo stesso team di chirurghi d’urgenza esperti, riducendo la variabilità legata all’operatore.
Le Complicanze: Un Prezzo da Pagare?
Se sulla mortalità non abbiamo visto differenze, la storia cambia quando guardiamo le complicanze. Qui i dati sono stati chiari: il gruppo OA ha avuto un tasso di complicanze significativamente più alto (p=0.001), sia per quelle moderate (Clavien-Dindo II) che per quelle severe che richiedono interventi o portano a conseguenze gravi (Clavien-Dindo III-IV-V). L’unica eccezione sono state le complicanze minori (CD I), più frequenti nel gruppo PC.
E poi c’è il capitolo ernie incisionali (laparoceli). La differenza è stata enorme e statisticamente molto significativa (p<0.0001): solo il 9,6% dei pazienti PC ha sviluppato un'ernia nel follow-up, contro ben il 57,9% dei pazienti OA! Questo dato è in parte spiegato dal fatto che nel 25% dei casi OA non è stato possibile chiudere la fascia muscolare alla fine del percorso, lasciando solo la cute (e quindi programmando di fatto un’ernia ventrale), ma riflette comunque un problema reale e pesante legato a questa strategia. La letteratura conferma questa tendenza: l’OA è associato a un rischio molto più alto di laparoceli, che possono essere difficili da riparare, specialmente in un addome “ostile” dopo sepsi e interventi multipli.
Oltre la Mortalità: Altri Risultati Chiave
Abbiamo osservato altri aspetti interessanti:
- Durata dell’intervento iniziale: Significativamente più breve nel gruppo OA (mediana 70 min vs 120 min nel PC, p<0.001). Questo supporta l'idea che l'OA venga scelta, nella nostra pratica, in situazioni più critiche, assimilabili a una strategia di "Damage Control Surgery" (DCS), dove l'obiettivo primario è stabilizzare rapidamente il paziente. Abbiamo definito questo approccio "near DCS".
- Necessità di vasopressori: Più frequente nel gruppo OA alla fine dell’intervento (89.6% vs 48.8%, p<0.001), confermando che si trattava mediamente di pazienti più instabili.
- Chiusura della fascia: Raggiunta molto più spesso nel gruppo PC (96.9% vs 68.8% OA, p<0.001).
- Re-laparotomie non pianificate: Paradossalmente, sono state più frequenti nel gruppo OA (22.9% vs 8.7% PC, p=0.019), nonostante l’OA preveda re-interventi programmati (“second look”). Questo è in linea con lo storico studio di Van Ruler del 2007, che suggeriva come una strategia “on-demand” (cioè rioperare solo se necessario) fosse preferibile a quella programmata.
- OA per ritardare l’anastomosi: Nel 10.4% dei casi OA, l’intenzione era quella di evitare una stomia (il “sacchetto”). Tuttavia, quasi tutti questi pazienti (4 su 5) hanno comunque ricevuto una stomia alla fine. La strategia OA non sembra quindi efficace per questo specifico scopo, almeno nella nostra esperienza. Il tasso globale di stomie è risultato praticamente identico nei due gruppi (circa 63%).
- Durata della degenza (LOS): Nessuna differenza significativa (mediana 18 giorni OA vs 14 giorni PC, p=0.128).
Confronto con la Letteratura e Nuove Prospettive
Come accennato, i nostri dati sulla mortalità e sulle complicanze si allineano con diverse evidenze che mettono in discussione i benefici netti dell’OA nella peritonite secondaria non traumatica. L’idea che l’OA sia una sorta di approccio “near DCS” per i pazienti più gravi emerge anche dai nostri dati (MPI più alto, più vasopressori, chirurgia più breve). In questo contesto, vale la pena menzionare che nuove strategie, come la Direct Peritoneal Resuscitation (DPR), stanno emergendo come possibili trattamenti aggiuntivi nella gestione della sepsi grave, con risultati promettenti sulla stabilità emodinamica.
Limiti dello Studio e Sguardo al Futuro
Dobbiamo essere onesti sui limiti del nostro lavoro. È uno studio retrospettivo, monocentrico, basato sull’esperienza di un singolo team. Le dimensioni dei due gruppi erano diverse, così come l’età mediana. C’era eterogeneità nei tipi di intervento e, purtroppo, non avevamo dati precisi sul tempo intercorso tra l’insorgenza dei sintomi e la chirurgia, un fattore che può influenzare la mortalità. Il follow-up per le ernie era variabile. Infine, anche se un singolo team può omogeneizzare le scelte, una certa variabilità individuale legata all’esperienza del chirurgo rimane un possibile bias (infatti, in un terzo dei casi OA, la motivazione specifica non era nemmeno riportata nelle note operatorie).
Sappiamo tutti che fare studi prospettici randomizzati (RCT) in chirurgia d’urgenza è difficilissimo, ma sono assolutamente necessari per definire meglio il ruolo dell’OA nella peritonite secondaria. Grandi speranze sono riposte nel COOL trial, un RCT internazionale in corso dal 2018, che sta raccogliendo dati proprio su questo tema e da cui ci aspettiamo risposte più definitive.
Conclusioni: Qual è la Strada Giusta?
Alla luce della nostra esperienza degli ultimi 5 anni, l’uso dell’addome aperto nella sepsi addominale secondaria grave non sembra migliorare la mortalità ed è associato a un tasso più elevato di complicanze a breve termine e di ernie incisionali.
Riteniamo che l’OA rimanga una strategia da considerare in pazienti con condizioni cliniche gravissime e sepsi addominale, soprattutto come approccio “near DCS” dove il tempo è un fattore critico e può essere necessario “guadagnare tempo” per ponderare meglio il trattamento definitivo. Tuttavia, la decisione deve essere molto oculata, tenendo conto dei rischi aumentati, e ricordando che la gravità intrinseca della peritonite (come misurata dall’MPI) sembra essere il fattore prognostico principale.
La strada giusta? Probabilmente non è unica e dipende da tanti fattori. Ma i nostri dati suggeriscono cautela nell’adottare l’addome aperto come routine, spingendoci a preferire la chiusura primaria quando possibile e fattibile, e ad attendere con ansia i risultati di studi più solidi per avere finalmente linee guida più chiare.
Fonte: Springer