Ragazzini in tribunale? Abbassare l’età non ferma il crimine (anzi!)
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema che scotta, uno di quelli che accende dibattiti infiniti tra politici, esperti e anche tra noi cittadini: a che età un ragazzo può essere considerato responsabile penalmente per i suoi atti? E soprattutto, abbassare questa soglia serve davvero a ridurre la criminalità giovanile? Sembra una domanda da un milione di dollari, vero? Beh, tenetevi forte, perché uno studio recente, basato su un esperimento sociale involontario avvenuto in Danimarca, ci dà delle risposte piuttosto sorprendenti e, lasciatemelo dire, un po’ controintuitive.
L’esperimento danese: quando la politica gioca con l’età
Immaginate la scena: per decenni, in Danimarca, come in molti paesi nordici noti per il loro approccio più riabilitativo che punitivo (almeno tradizionalmente), l’età minima per finire sotto processo penale era fissata a 15 anni. Sotto quell’età, se combinavi qualcosa, te la vedevi con i servizi sociali, non con giudici e tribunali. Poi, nel 2010, arriva un governo di centro-destra con la filosofia del “tough-on-crime”, quella del pugno di ferro per intenderci, e decide di abbassare la soglia a 14 anni. L’idea? Semplice (almeno sulla carta): spaventare i quattordicenni con la minaccia di processi e sanzioni vere, sperando così di dissuaderli dal commettere reati. Una mossa pensata per dare un segnale forte, per dire “basta buonismo, ora si fa sul serio”. Peccato che questa riforma sia durata solo 20 mesi, perché poi un nuovo governo di centro-sinistra ha riportato tutto come prima, a 15 anni. Un tira e molla che, involontariamente, ha creato le condizioni perfette per uno studio scientifico.
Cosa ci aspettavamo? Teorie a confronto
Qui entriamo nel cuore del dibattito. Da una parte, c’è la teoria della deterrenza: se aumenti i costi (la punizione), la gente (anche i ragazzini) ci penserà due volte prima di delinquere. È la logica dietro molte politiche di “legge e ordine”. Suona ragionevole, no? Se sai che a 14 anni rischi grosso, magari eviti di rubare lo scooter o fare a botte.
Dall’altra parte, però, ci sono teorie e scoperte che remano contro. Pensiamo alla teoria dell’etichettamento (labelling theory): appiccicare l’etichetta di “criminale” a un adolescente, specialmente così presto, può avere effetti devastanti. Può marchiarlo a vita, escluderlo da percorsi positivi (scuola, lavoro), farlo sentire diverso e, paradossalmente, spingerlo ancora di più verso comportamenti devianti. Come dire: “Visto che mi considerate un delinquente, tanto vale che lo faccia”.
E poi c’è la scienza, quella vera: neuroscienze e psicologia dello sviluppo ci dicono chiaramente che il cervello degli adolescenti è ancora un cantiere aperto. La parte responsabile del pensiero consequenziale, del controllo degli impulsi, della valutazione dei rischi (la corteccia prefrontale) matura molto più tardi. I ragazzi sono più impulsivi, più influenzabili dai coetanei, meno capaci di pensare alle conseguenze a lungo termine. Ha senso trattarli come adulti in miniatura davanti a un giudice? Le Nazioni Unite, non a caso, raccomandano un’età minima di almeno 14 anni, sottolineando proprio l’importanza della maturità emotiva, mentale e intellettuale.

I risultati che non ti aspetti: altro che deterrenza!
E quindi, cosa è successo in Danimarca durante quei 20 mesi di “pugno di ferro” sui quattordicenni? I ricercatori hanno preso i dati di quasi 163.000 ragazzi, analizzando mese per mese chi veniva denunciato (anche “per finta”, cioè registrato dalla polizia anche se sotto l’età legale prima della riforma) prima, durante e dopo il cambio di legge. Hanno controllato tutto: il calo generale della criminalità giovanile che c’era già, le differenze locali, le caratteristiche familiari, persino se i ragazzi avevano già avuto guai con la legge.
Il risultato? Preparatevi: abbassare l’età minima non ha avuto alcun effetto nel ridurre la probabilità che i quattordicenni commettessero reati. Zero deterrenza generale. Anzi, i dati suggeriscono qualcosa di peggio: durante il periodo della riforma, c’è stato un aumento significativo dei crimini denunciati proprio tra i quattordicenni! E indovinate un po’ chi ha contribuito di più a questo aumento? Proprio i ragazzi che avevano già precedenti. Sembra quasi che la minaccia del sistema penale abbia avuto l’effetto opposto, forse spingendo chi era già “etichettato” a delinquere di più.
Per essere sicuri, i ricercatori hanno fatto altre verifiche:
- Hanno guardato i tredicenni: nessun effetto “spillover”, cioè la criminalità non si è spostata su di loro per evitare la nuova legge.
- Hanno guardato i quindicenni (che erano imputabili sia prima che dopo): nessun cambiamento significativo legato alla riforma, come ci si aspetterebbe (effetto placebo).
- Hanno verificato se l’effetto fosse diverso per tipo di reato (furti, aggressioni, ecc.): niente, il risultato non cambiava.
Insomma, mettendo insieme tutti i pezzi, lo studio non solo smentisce l’efficacia deterrente della riforma, ma suggerisce che potrebbe essere stata addirittura controproducente, facendo aumentare la criminalità tra i diretti interessati.

Perché abbassare l’età non ha funzionato (e forse ha peggiorato le cose)?
Ma come è possibile? Le spiegazioni potrebbero essere diverse, e probabilmente si intrecciano.
Una prima ipotesi: forse i ragazzi non sapevano della riforma? Difficile. Lo studio cita un sondaggio fatto successivamente in Danimarca che mostra come i giovani, anche quelli a rischio, siano generalmente consapevoli dell’età minima e delle conseguenze. E poi la riforma fu molto discussa sui media. Quindi, probabilmente, lo sapevano.
Allora perché non ha funzionato? Qui tornano in gioco le teorie che avevamo visto:
- Irrazionalità adolescenziale: Forse, semplicemente, la minaccia della punizione non pesa così tanto nelle decisioni di un quattordicenne come in quelle di un adulto. L’impulso del momento, la voglia di trasgredire, la pressione dei pari, la sensazione di “non essere beccato” potrebbero contare molto di più. Il cervello, come detto, non è ancora “cablato” per una valutazione razionale costi-benefici in stile adulto.
- Effetto etichettamento/criminogeno: L’aumento dei reati, specialmente tra chi aveva già precedenti, fa pensare. È possibile che l’essere trattati formalmente come criminali dal sistema giudiziario abbia rafforzato un’identità deviante, invece di correggerla. Il contatto precoce con il sistema penale, invece di “raddrizzare”, potrebbe aver instradato ancora di più verso quella via.
- Possibile cambio nel reporting? I ricercatori hanno considerato anche se la polizia avesse cambiato modo di registrare i reati, ma non hanno trovato prove evidenti. Sembra proprio un effetto sul comportamento dei ragazzi.

Cosa ci insegna questa storia? Riflessioni per il futuro
Questa ricerca danese, secondo me, è un campanello d’allarme importante. Ci dice che le politiche basate sul “pugno di ferro”, almeno quando si tratta di adolescenti così giovani, potrebbero non solo essere inefficaci, ma addirittura dannose. L’idea di abbassare l’età dell’imputabilità per spaventare i ragazzi e ridurre il crimine sembra basarsi su una visione un po’ semplicistica di come funzionano la mente e il comportamento adolescenziale.
Non sto dicendo che i reati commessi dai minori non siano un problema serio, anzi. Ma forse la soluzione non è anticipare l’ingresso nel tritacarne del sistema penale “adulto”. Forse dovremmo investire di più in prevenzione, in interventi educativi, nel supporto alle famiglie, in sistemi (come quello dei servizi sociali, che in Danimarca gestiva i minori di 15 anni) che mirino più alla comprensione, alla rieducazione e al reinserimento, piuttosto che alla mera punizione che, come abbiamo visto, rischia di etichettare e peggiorare la situazione.
Il dibattito sull’età giusta è destinato a continuare, in Italia come altrove. Ma studi come questo ci forniscono dati concreti, non solo opinioni o slogan politici. E ci ricordano che, quando si parla di ragazzi, forse servono più intelligenza e comprensione che semplice durezza. Voi cosa ne pensate?
Fonte: Springer
